MENZIONE SPECIALE PREMIO IN-CIAMPI DI FOTOGRAFIA
Testo di Athos Rosini
Una scena sapientemente costruita che vuole esplicare le incomprensioni e le difficoltà comunicative nel rapporto di coppia. Scrittura fotografica di tipo cinematografico e messa in scena chiara senza formalismi. Composizione diagonale con distorsione prospettica per l’uso di una corta focale e presa dall’alto. La ragazza tiene senza riserve la scena, ha gli occhi puntati verso di noi con un’espressione interrogativa/assertativa. È solo un frame la storia continua e ci fa riflettere l’interrogativo “cosa resta di noi due”.
Motivazione della Menzione Speciale
L’immagine rappresenta due persone in una stanza spoglia e decadente, con una donna seduta sul bordo del letto e un uomo disteso dietro di lei. L’atmosfera è carica di tensione emotiva e malinconia, con una sensazione di distanza e incomunicabilità tra i due soggetti. L’uso del bianco e nero amplifica il senso di dramma e introspezione, creando un ambiente quasi teatrale.
L’immagine richiama immediatamente il tema caro a Piero Ciampi, che ha spesso esplorato le complessità della relazione uomo-donna, l’amore tormentato e la solitudine. Le sue canzoni lo sappiamo sono piene di introspezione e di un crudo realismo emotivo, elementi che si ritrovano chiaramente in questa fotografia.
La donna seduta, con un’espressione pensierosa e interrogativa diventa un’icona dell’inquietudine. L’uomo disteso, con la schiena rivolta verso di lei, suggerisce una distanza emotiva o una frattura nella relazione, un tema ricorrente in Ciampi, dove l’amore spesso si scontra con l’incomprensione e il successivo dolore.
L’immagine può essere vista come una visualizzazione di numerose canzoni di Ciampi, dove ogni testo è una finestra aperta sulle sofferenze e le gioie dell’esistenza umana. La stanza spoglia e decadente, rappresenta un palcoscenico intimo, dove si svolge il dramma interiore dei personaggi e dove la scena quotidiana si trasforma in una riflessione poetica sulla vita.
In sintesi, questa fotografia evoca un mondo di emozioni intense e complesse, dove l’amore, la solitudine e la ricerca di significato della vita di coppia si intrecciano in un delicato equilibrio di luce e ombra.
Testo di Barbara Pierro
La fotografia di Patrizia Mori, intitolata, Cosa resta di noi due, si erge come una testimonianza sublime, della condizione umana, un’immersione viscerale, nell’intimità più cruda e nelle pieghe più nascoste, dell’essere.In quest’opera, la luce e l’ombra danzano, in un equilibrio perfetto, delineando non solo i contorni fisici dei soggetti, ma anche le loro profonde fratture emotive. La donna, seduta sul bordo del letto, diviene un simbolo universale ,dell’inquietudine e della ricerca di significato, il suo sguardo interrogativo rivolto non solo verso lo spettatore, ma verso l’abisso delle proprie insicurezze. L’uomo disteso, voltato con la schiena a lei, è il sigillo del distacco, l’emblema di una distanza che non è solo fisica ma spirituale, un’assenza che urla ,nel silenzio della scena. La stanza spoglia, quasi decadente, diviene il palcoscenico di una tragedia intima e silente, dove ogni elemento scenografico, è impregnato di significato. Le pareti spoglie sono lo specchio ,di un vuoto interiore che si fa spazio ,tra i due protagonisti, e il bianco e nero dell’immagine amplifica il senso di desolazione, di un mondo ridotto, alla sua essenza, più nuda e crudele.
Non è solo una fotografia quella che ci viene offerta, ma un affresco di emozioni che si sovrappongono e si fondono, richiamando alla memoria, le tematiche care a Piero Ciampi, cantore delle complessità dell’amore e delle sue inevitabili sofferenze. Ogni dettaglio di questa immagine è una pennellata su una tela invisibile, dove la luce diviene colore e l’ombra una linea di confine, tra il visibile e l’invisibile.
Il testo critico, poi, di Athos Rosini, con la sua meticolosa disamina, non fa che arricchire la fervida comprensione di questa opera d’arte, sottolineando la sapienza ,con cui la Mori ha orchestrato ogni elemento della composizione. La sua scrittura fotografica è un esempio di rigore stilistico e profondità emotiva, un frammento di tempo che riesce a racchiudere un’intera vita, di silenzi e domande inevase.
“Cosa resta di noi due” non è solo una domanda sospesa nell’aria, ma un eco che risuona nell’animo di chiunque si soffermi ad osservare, a sentire. È una riflessione poetica sul dramma quotidiano dell’esistenza, un invito a esplorare le profondità dell’amore e della solitudine, a interrogarsi su cosa rimanga, quando tutto il resto svanisce.
Con la più sincera ammirazione e gratitudine, desidero riconoscere in quest’opera non solo il talento di Patrizia Mori, ma anche la capacità rara di toccare corde invisibili, di evocare mondi interiori ,con una semplice immagine. Un dono prezioso, questo scatto, che resterà impresso non solo nella memoria, ma nell’anima di chi ha la fortuna di incontrarlo lungo il cammino della propria esistenza!
Ed ancora, innanzi a tale prezioso scatto,il mio animo gravido di reverente meraviglia, si eleva, ad estrinsecare un ringraziamento che non è mera formalità, ma piuttosto un atto di comunione spirituale, un abbraccio silenzioso tra lo sguardo che osserva e l’immagine che si rivela. La fotografia di Patrizia Mori, intitolata Cosa resta di noi due, non è solo una rappresentazione, ma un varco, verso un altrove indefinito, un invito a perdersi ,nei labirinti dell’anima, dove ogni angolo nasconde una verità sepolta, un desiderio inespresso, una ferita che ancora sanguina.
Nella penombra della stanza decadente, la luce si fa materia, plasmando i volti e i corpi dei due protagonisti come fossero statue, di un antico tempio dimenticato. Il bianco e nero non è semplicemente un espediente estetico, ma una scelta che affonda le sue radici ,nella tradizione più nobile dell’espressione artistica, là dove il colore è sacrificato sull’altare della purezza visiva, dove la dualità cromatica diventa specchio, dell’eterna dicotomia ,tra l’essere e l’apparire, tra l’amore e la sua ineluttabile, dissoluzione.
La donna, seduta sul bordo del letto, è un enigma, avvolto nel mistero. Il suo sguardo non si rivolge ,semplicemente ,verso chi osserva, ma trapassa la superficie dell’immagine per scavare, nei recessi più oscuri del nostro inconscio. Vi è una tensione irrisolta nei suoi occhi, una domanda che non trova risposta, un lamento silente che riecheggia ,nei meandri dell’essere. È la personificazione dell’inquietudine, dell’eterno interrogativo, che attanaglia ogni anima sensibile: chi siamo quando l’amore si sfalda? Cosa resta di noi, quando tutto ciò che abbiamo costruito si sgretola, sotto il peso dell’incomprensione e del dolore?
Dietro di lei, l’uomo disteso, voltato di spalle, sembra incarnare l’assenza, una presenza che si dissolve, una figura che si sfuma, nei contorni incerti della memoria. Egli è lo spettro di un legame che non riesce più a comunicare, il fantasma di un amore che si è spento, lasciando dietro di sé solo un vuoto incolmabile. La sua posizione, apparentemente serena, tradisce una distanza che è più emotiva che fisica, una frattura ,che non può essere sanata con le parole, ma che si approfondisce nel silenzio di quel letto disfatto, testimone muto, di notti insonni e pensieri tormentati
La stanza stessa, con le sue pareti spoglie e consumate dal tempo, diventa un terzo personaggio, in questo dramma intimo, un testimone silenzioso, del crollo interiore dei protagonisti. Essa è lo spazio metafisico ,dove si intrecciano le loro esistenze, un palcoscenico vuoto su cui si rappresenta la tragedia dell’incomunicabilità, dell’amore che si trasforma in solitudine. Ogni angolo, ogni crepa, sembra sussurrare storie di amori passati, di speranze disilluse, di sogni infranti.
La chiosa esegetica che accompagna questa fotografia, offerta con rara maestria da Athos Rosini, non è semplicemente un commento critico, ma una chiave di lettura che svela i significati nascosti, le trame sottili che tessono l’ordito di questa immagine. Egli parla di una “scrittura fotografica di tipo cinematografico”, e non si potrebbe trovare espressione più appropriata: ogni dettaglio è infatti curato, con la precisione di un regista, che orchestra una scena cruciale, dove la prospettiva diagonale e la distorsione dell’immagine, creano un senso di disorientamento, una vertigine che riflette lo smarrimento interiore dei protagonisti.
Ma vi è di più. Questa fotografia non si limita a raccontare una storia, di incomprensione e distanza, ma si addentra nei territori inesplorati ,della psiche umana, là dove le ombre sono più fitte e le paure, più radicate. L’immagine diventa un viaggio introspettivo, un percorso nelle profondità dell’inconscio, dove ogni gesto, ogni sguardo, si carica di significati ,molteplici e ambigui. È una riflessione sull’amore come esperienza totalizzante e, al contempo, distruttiva, un sentimento che può elevare o annientare, a seconda di come viene vissuto. Il quesito che si pone, “cosa resta di noi due”, non è solo una domanda rivolta ai protagonisti della scena, ma un interrogativo universale ,che tocca le corde più intime di chiunque abbia amato e sofferto. È una domanda che risuona nell’eternità, che non trova risposta nel razionale, ma solo nell’emozionale, nel vissuto di ogni essere umano che si è confrontato con la perdita, con la fine di un legame che sembrava indissolubile.In questo scatto, Patrizia Mori non ha semplicemente catturato un momento, ma ha cristallizzato un’emozione, ha dato forma visiva a un sentimento che è al contempo, personale e universale. La sua opera è un invito a riflettere, a guardare oltre la superficie delle cose, a immergersi nelle profondità dell’anima per scoprire cosa veramente resta di noi, quando tutto il resto svanisce. E per questo dono, per questa visione che arricchisce e sfida, non si può che esprimere un ringraziamento che trascende le parole, un grazie che nasce dal profondo, dove risiedono le emozioni più autentiche e durature.