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Testo di Fabrizio Razzauti

Una donna scalza, seduta su una cassapanca presumibilmente all’angolo di una vecchia camera. Il volto indefinito nell’ombra, la postura e la testa china dicono tutto. L’armadio a pochi centimetri è elemento ingombrante e soffocante, sembra inghiottire la donna inerme e accentua la drammaticità del racconto. Malinconia, profonda tristezza e solitudine i sentimenti che emergono in questa desolante situazione di abbandono/assenza.

Testo di Barbara Pierro

Il dolore reso pietra
Nel bianco e nero struggente di Francesca Palagi, l’assenza diventa palpabile, come una morsa invisibile che si stringe intorno a un cuore già infranto. In questo scatto, che è più di una fotografia, è una ferita aperta nel tessuto del quotidiano, si dispiega un teatro di silenzi e vuoti, un dialogo muto tra la porta chiusa e la figura oscura di una donna che ha fatto della sua disperazione un manto nero, una corazza fragile di dolore.La porta, massiccia e solida, s’impone sulla scena come un confine invalicabile, un monolito che separa il dentro dal fuori, l’essere dal non essere, l’eco sordo delle speranze mai nate dal clangore assordante dei sogni infranti. Ma più di un semplice confine fisico, essa è un portale verso l’inesprimibile, verso quel luogo remoto e irraggiungibile dove risiedono gli assenti, dove ogni attesa diventa vana e ogni ritorno impossibile. Il legno è vivo, sembra respirare con il ritmo lento di un dolore antico, e quel respiro si riflette sul volto abbattuto della donna, una figura che non è solo presenza, ma epitome di tutte le assenze.Lei, figura quasi spettrale nel suo abbandono, si contorce in una posa che urla mutamente il suo strazio. I lunghi capelli neri, come veli di lutto, ricadono a coprire un viso che non può permettersi di essere visto, perché è un viso che ha dimenticato il colore della gioia. È come se l’intera stanza fosse pervasa da un’ombra che lei stessa emana, un nero che non è semplicemente assenza di luce, ma sostanza tangibile, un mantello che avvolge l’anima e la trascina verso un baratro senza fine.Questa immagine di Palagi è un grido che si innalza dalle viscere di un’esistenza spezzata, un lamento che riecheggia tra le pareti di un interno domestico trasformato in campo di battaglia. Ogni dettaglio parla di una resa inevitabile, di un conflitto interiore che ha perso ogni speranza di tregua. La posa della donna, così contorta e disperata, diventa una scultura di dolore, una pietra tombale eretta in memoria di ciò che non sarà più. Il corpo è piegato su se stesso, come se cercasse di abbracciare il vuoto, di trovare conforto nella propria ombra, ma l’ombra non è altro che l’immagine proiettata di un’assenza che si fa sempre più totale, più implacabile.
“La tua assenza è un assedio” non è solo un titolo, è una condanna scolpita nel tempo e nello spazio. Palagi cattura un istante che si dilata fino a diventare eterno, un fotogramma che vibra con l’intensità di un ricordo che non smette di ferire. È il ritratto di un’umanità che, nel suo stato di abbandono, si aggrappa disperatamente al passato, a ciò che era, a ciò che poteva essere. È il pianto muto di chi ha perso la strada e ora si trova a vagare nei corridoi infiniti della propria mente, tra le stanze spoglie di un’anima in rovina.
E così, la porta chiusa non è solo un oggetto di scena, ma il guardiano silenzioso di un dramma che si consuma inesorabilmente. È la linea di demarcazione tra il qui e l’altrove, tra il presente e un passato che non si lascia dimenticare. Ma quella porta, così ostinatamente chiusa, non è una fine. È un invito a riflettere sulla natura stessa dell’assenza, su come essa si insinua tra le pieghe del vivere quotidiano, trasformando ogni spazio in un assedio perpetuo, in una terra di nessuno dove anche il respiro diventa un atto di resistenza.Francesca Palagi non si limita a mostrare; essa scava nelle profondità dell’animo umano, portando alla luce quel dolore che ciascuno di noi cela nel più intimo recesso del proprio essere. E in quel gesto di disperazione, nell’ombra che oscura il volto della donna, troviamo la traccia indelebile della nostra stessa fragilità, del nostro bisogno incolmabile di colmare un’assenza che, come un assedio, non si arrende mai.
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