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«Io e te, Maria» © Aldo Cicirello

Testo di Fabrizio Razzauti

Una giovane donna, avvolta nel suo impermeabile, quasi a proteggersi dal mondo circostante, cammina con sguardo basso persa nei suoi pensieri. Il bianco e nero della fotografia accentua il contrasto di questa figura solitaria e la vivacità del contesto urbano totalmente indifferente. La sua bocca semiaperta quasi a voler recriminare un dolore interiore. Sullo sfondo edifici grigi ed imponenti sembrano schiacciare la donna con la loro mole opprimente. Il rumore della città intorno amplifica la sensazione del volersi estraniare della protagonista. Il foulard in testa a coprire le orecchie come a prendere le distanze dall’ambiente circostante in cui tuttavia deve vivere. Il tutto diventa quasi metafora di un rapporto instabile, complicato e contrastato, fatto di desiderio, ricerca di solitudine ed impatto emotivo profondo dell’assenza della persona amata proprio come nella canzone citata.

Testo di Barbara Pierro

Osservo lo scatto, e immediatamente sento il respiro della città che pulsa, che vive in ogni sua pietra, in ogni suo vicolo. Napoli, eterna e vibrante, si svela in un gioco di luci e ombre, in un bianco e nero che non appiattisce, ma esalta l’anima segreta della città. E al centro di questo affresco vivente, una donna cammina, avvolta in una sciarpa che le cinge il capo nei capelli, come se volesse racchiudere in sé un universo di pensieri inaccessibili, misteriosi.
Il suo incedere è lento, quasi sospeso, e il suo volto, appena accennato dalle ombre, è un enigma che sembra nascondere storie mai raccontate. Questa donna non cammina semplicemente per le strade di Napoli; lei attraversa il tempo, attraversa l’essenza stessa della città. È come se ogni passo scandisse una preghiera muta, un dialogo silenzioso con le anime che abitano quei vicoli.
C’è una solennità in quel gesto, in quella camminata assortita, che mi cattura e mi trascina in un vortice di emozioni. Napoli, con il suo caos vitale, si ritira per un istante, lasciando spazio a questa figura che diventa un simbolo, un’icona di resistenza e bellezza. Le rughe del selciato si fondono con le linee del suo volto, creando una mappa segreta che solo gli occhi del cuore possono decifrare.
In questo bianco e nero, dove ogni contrasto è amplificato, dove la luce gioca con le ombre per creare una sinfonia di toni profondi, la donna diventa l’incarnazione di un pensiero, di un ricordo che affiora, di un sogno che non vuole morire . È come se portasse sulle spalle il peso di generazioni, il dolore e la gioia, la speranza e la rassegnazione, tutto condensato in quel fazzoletto che le copre i capelli.
Questo scatto è più di una fotografia: è una finestra aperta su un mondo interiore, su un universo fatto di ombre e luci, di contrasti e sfumature. È un invito a perdersi in quell’immagine, a lasciarsi avvolgere dal mistero che quella donna incarnata, a cercare tra le pieghe della sua sciarpa il segreto di Napoli, che non è mai stato così vicino, così palpabile, così vivo.
Napoli, con il suo cuore che batte al ritmo della vita stessa, si manifesta in questa fotografia in bianco e nero come un palcoscenico dove il quotidiano si intreccia con l’eterno. Al centro della scena, una donna avanza, avvolta in una sciarpa che incornicia il viso e ne cela i pensieri. La sua figura, assorbita nelle ombre, sembra emergere da un passato remoto, come un’eco di generazioni che hanno percorso
In questo scatto, il bianco e nero diventa un linguaggio universale, una grammatica di contrasti che racconta senza parole. Le linee decise ,delle ombre e le sfumature delicate della luce si fondono, creando un’immagine che non è solo visiva, ma profondamente emotiva. È come se ogni pixel,fosse impregnato della vita pulsante di Napoli, di quel respiro che si sente nelle sue vie strette, nelle sue piazze affollate, nei suoi silenzi improvvisati.
La donna avanza, assortisce nei suoi pensieri, e il suo incedere è solenne, quasi ieratico. Ogni passo è un atto di resistenza, una dichiarazione di presenza ,in un mondo che scorre troppo veloce. La sciarpa che le avvolge il capo è come un velo che separa il suo mondo interiore dalla frenesia che la circonda, un confine sottile tra il visibile e l’invisibile. Non è una semplice figura femminile: è l’incarnazione della memoria, della saggezza antica, del dolore e della speranza che si mescolano nella vita di ogni giorno.
Le ombre dei palazzi sembrano inchinarsi al suo passaggio, quasi a riconoscere in lei, qualcosa di sacro. Le pietre della strada, consumate dal tempo, riflettono il suo cammino come un fiume che scorre ,verso l’ignoto. È una scena che evoca il sacro e il profano, che parla di un’umanità che si confronta con il destino, che vive nel presente ma porta con sé, i segni indelebili del passato.
Mentre osservo questa immagine, sento che sto guardando più di una semplice fotografia: sto assistendo a un frammento di vita che si cristallizza, in qualcosa di eterno. La donna, con il suo capo avvolto e il suo passo deciso, diventa il simbolo di una città che non si piega, che vive con intensità, che trova la bellezza anche nelle pieghe più oscure della sua esistenza. È Napoli stessa, che si riflette in ogni volto, in ogni sguardo, in ogni angolo nascosto, portando con sé ,un carico di storie che non smetteranno mai di esserlo.
In questo scatto, il tempo sembra sospeso, e io mi ritrovo immersa, in un mondo dove il bianco e nero non è sinonimo di assenza di colore, ma di profondità, di verità che si nascondono sotto la superficie delle cose. È un richiamo a vedere oltre, a sentire il battito di un cuore che non smette mai di pulsare, a riconoscere la bellezza nel silenzio, nella solitudine, nel mistero che avvolge ogni anima.

«Tengo nelle tasche sogni! strani, sogni» © Patrizia Mori

Testo di Fabrizio Razzauti

Un giovane uomo, vestito con sobria eleganza, siede tenendo una sigaretta tra le dita in un ambiente che ha conosciuto tempi migliori. Il suo sguardo è fisso verso il basso, perso nei suoi pensieri. Le sopracciglia leggermente aggrottate e le labbra dischiuse tradiscono una vena di malinconia che percorre il suo viso. Riferimenti alla tematica esistenziale e introspettiva che caratterizza la canzone “Confiteor”: un’auto-confessione di un uomo tormentato alle prese con senso di “inconcludenza”, fragilità e incomunicabilità.

Testo di Barbara Pierro

Tengo nelle tasche sogni! strani, sogni” – Il Riflessionista Sospeso
Un uomo si staglia al margine di una stanza che pare sospesa nel tempo, come un frammento di un sogno interrotto. Patrizia Mori cattura un attimo di malinconia e contemplazione, un respiro trattenuto nell’aria stantia di una casa che sembra conoscere solo il linguaggio del silenzio. Seduto al confine tra l’interno e l’esterno, tra il chiuso e l’aperto, il protagonista trattiene tra le dita una sigaretta, una piccola fiammella di esistenza che brucia lenta, consumandosi senza fretta, in un rito intimo e quotidiano. La sua figura, assorta e fragile, evoca una giovinezza che non è più fresca ma neppure ancora svanita; è una giovinezza che contempla se stessa nel riflesso della vita che scorre, che si interroga sul proprio destino con l’espressione di chi ha imparato a decifrare le ombre sulle pareti, i segreti sussurrati dai mobili vecchi, i sussulti del pavimento sotto i piedi. C’è un mondo che si agita nei suoi occhi, un universo di sogni che si annida nelle pieghe della sua camicia sgualcita, tra le rughe dei pensieri che non trovano pace.Mori ci offre un ritratto di una solitudine che non è isolamento, ma un dialogo con l’invisibile. Ogni oggetto nella stanza, dalla sedia abbandonata alla porta socchiusa, è un simbolo muto di possibilità e rimpianto, di sogni che si tengono stretti nelle tasche, sogni strani, irrequieti, forse irrealizzabili, ma che esistono proprio perché credere in essi è l’unico modo per sentirsi vivi. È come se il giovane uomo stesse dialogando con l’infinito, in un linguaggio fatto di silenzi e pause, un lessico senza parole che solo gli spiriti irrequieti sanno comprendere.In quell’atto semplice e complesso di tenere un sogno tra le dita, Mori distilla l’essenza di un’esistenza interiore profonda e sommessa. Le pareti della stanza diventano un palcoscenico per un monologo muto, una riflessione sull’essere e sul sentire, sul peso dei giorni che scivolano come cenere e sulla forza di continuare a sognare, nonostante tutto. È un momento rubato al tempo, un fermo immagine che parla delle nostre stesse inquietudini, della bellezza sottile di un pensiero che si disperde nell’aria, insieme al fumo di una sigaretta.“Tengo nelle tasche sogni! strani, sogni” è una dichiarazione di resilienza, una promessa a sé stessi, un modo di sopravvivere ai giorni uguali, di rendere sacro ciò che è ordinario. Mori non ci mostra un eroe, ma un essere umano, nella sua semplicità e complessità, nella sua resa e nel suo desiderio di riscatto. E in questo ritratto senza tempo, ciascuno di noi può specchiarsi, riconoscendo nei lineamenti di quel giovane l’eco dei propri sogni mai confessati, dei propri desideri tenuti segreti, di quell’irrinunciabile anelito verso un domani che, forse, ci renderà finalmente liberi.

«L’amore è tutto qui» © Francesco Luongo

Testo di Fabrizio Razzauti

Una coppia di anziani si sostiene per mano per un bagno, il mare è calmo, il sole risplende. L’ombrellone è pronto a proteggere dall’intensa luce al loro ritorno. Tranquillità, protezione, armonia ed equilibrio accentuati dalla simmetria della composizione in cui tutto risulta in ordine. Un’immagine che diventa metafora della vita di coppia e dell’amore – tu vai sicura, vai così perché io son sempre qui – fatta di piccoli gesti quotidiani e che nella canzone di Piero rimane nel «mondo dell’illusione».

Testo di Barbara Pierro

Sotto un sole che si riflette in migliaia di piccole onde e incorniciato da un ombrellone solitario sulla riva, una coppia avanza lentamente verso il mare. Due figure che, con passo incerto, camminano fianco a fianco, immerse fino alle ginocchia nell’acqua cristallina. Le loro mani si tengono strette, intrecciate come le radici di due alberi cresciuti insieme nel tempo.Non c’è fretta, non c’è urgenza. Ogni passo è un piccolo rituale, una danza silenziosa di chi conosce il ritmo del tempo che scorre ma non ha paura di seguirlo. Sulla riva, sotto l’ombrellone, gli oggetti quotidiani: una borsa abbandonata, un asciugamano, un libro lasciato a metà. Piccoli segni di una giornata al mare, momenti di una vita semplice e condivisa. Il mondo intorno scompare, si riduce a un battito di ciglia, a un respiro profondo che riempie i polmoni con il sale del mare e la nostalgia di ciò che è stato. La riva sassosa e le acque calme riflettono una storia senza parole, un amore che non necessita di spiegazioni né di grandi gesti per esistere. Si basta da sé, si nutre della quiete delle mattine estive, delle onde che lambiscono i piedi e delle risate che si perdono nel vento.Sono l’incarnazione di un tempo che non si può fermare ma che si può vivere con pienezza, uno accanto all’altro, senza bisogno di altro se non di quel semplice contatto. Mani che si stringono, che si sostengono in un equilibrio fragile e potente al tempo stesso. In quel tenue tocco, c’è il passato, il presente e un futuro che non teme l’incertezza.L’amore è tutto qui, in quella linea sottile tra la terra e il mare, nel riflesso di due anime che camminano insieme verso l’infinito, senza cercare altro se non il conforto della reciproca presenza. Un’immagine di semplicità e verità, un istante sospeso che racconta più di mille parole, che cattura l’essenza di ciò che significa essere uniti, senza pretese, senza necessità di altro se non di questo.Un passo, poi un altro, le onde si fanno più profonde, ma le mani restano unite. Non serve altro. In questo piccolo frammento di mondo, l’amore è completo, intero, perfetto nella sua imperfezione. Non ci sono promesse grandiose, solo la certezza di un cammino condiviso. E nel riflesso di quell’acqua, si vede tutto ciò che davvero importa: due vite intrecciate, un amore che resiste al tempo, come le onde che si infrangono ma sempre tornano, instancabili e fedeli, sulla stessa riva.E mentre il sole cala dolcemente, lasciando spazio alla quiete della sera, resta solo il suono lieve delle onde, il ricordo di due figure che si tengono per mano, camminando insieme nel mare della vita. Sì, l’amore è davvero tutto qui.

«Sei salita con rancore» © Massimiliano Cozza

Testo di Athos Rosini

Giovinezza, rappresentata da una giovane donna inquadrata dentro un mezzo di trasporto pubblico. Il riquadro del finestrino delimita lo spazio tra il fuori e il dentro protetto dalla trasparenza del vetro. La giovane è assorta nell’ascolto, si intravede l’auricolare, corre la fantasia; è una poesia cantata di Piero Ciampi “In un Palazzo di Giustizia” da cui è estrapolato l’incipit.

Testo di Barbara Pierro

Il Rancore del Viaggio: La Solitudine della Partenza
“Sei salita con rancore” — un rancore che si annida negli occhi velati di malinconia, un rancore che si arrotola attorno alle spire invisibili del tempo, come un serpente che stringe il suo ventre alla memoria. Sei salita su quel treno, e con te si è imbarcata una tempesta di pensieri avvolti nella nebbia di ricordi graffianti, nelle spine di un passato che non sa più essere addomesticato. Ti siedi, ma è un sedersi di chi non cerca conforto; è un sedersi di resa, come un generale stanco che ha perduto ogni battaglia, ma non la dignità di combattere fino all’ultimo respiro.Nel tuo riflesso sfocato sul vetro si scorge l’infinito del tuo viaggio interiore, un viaggio che non conosce stazioni né orari, ma solo deviazioni impercettibili verso un altrove che nessuna mappa può rivelare. Il mondo fuori scorre, si dissolve in un turbinio di immagini indistinte, ma tu resti immobile, ancorata a quella rabbia che si trasforma in una zavorra silenziosa, un peso che ti trascina sempre più a fondo. Ti sei raggomitolata, quasi a voler sparire nella stoffa del sedile, quasi a voler nascondere alla vista ciò che non può essere visto, se non dall’occhio attento del vuoto che ti scruta, paziente, senza giudizio.
Eppure, in questo tuo piegarti su te stessa, c’è un’eco di sfida, un’ombra di orgoglio che non si lascia spezzare. È un viaggio, sì, ma non un abbandono; è una fuga, ma non senza meta. È la ricerca di un nuovo capitolo, scritto con l’inchiostro dell’ira, con il sangue rappreso delle illusioni perdute. Il treno fende la notte, ma non è il buio che temi: temi il silenzio che segue, la quiete che accoglie la furia del cuore come un oceano accoglie un fiume in piena, lasciandolo disperdersi senza lasciare traccia.
Ogni scossa, ogni fremito del vagone è un rintocco, un battito di tempo che si dilata tra il presente e ciò che sarà. Sei in viaggio, ma non verso un luogo, bensì verso una condizione, una risoluzione che solo tu conosci. È un viaggio che è insieme condanna e liberazione, una promessa fatta a metà, un desiderio che si nasconde dietro un velo di rimpianto e di speranza spezzata. Sei salita con rancore, ma anche con un barlume di attesa, quella scintilla impercettibile che scintilla nelle ceneri del tuo sguardo, una fiamma minuta, fragile, ma innegabilmente viva.
E così, continui. Non c’è altro da fare se non continuare, lasciando che il treno corra e il rancore arda, fino a consumarsi in qualcosa di nuovo, di inspiegabilmente tuo. Forse è il viaggio stesso la tua risposta, un percorso che non ha bisogno di conclusioni, ma solo di proseguire, di esistere per il semplice atto di esistere. Forse è proprio nel rancore che troverai la tua redenzione, in quell’ardere silenzioso che illumina il tuo volto, anche solo per un istante, mentre il treno prosegue il suo corso nella notte senza fine.

«10 ai cent’anni» © Antonio Grambone

Testo di Athos Rosini

Senilità, rappresentata da un inappuntabile vecchio signore inquadrato dentro un mezzo di trasporto pubblico. Il nostro ha un espressione dura, l’immagine è sporcata ma graficamente appropriata al contesto cumunicativo. Sulla destra i led disegnano il numero novanta, forse la stessa età del nostro passeggero. Gli indizi o tracce sono contenuti in questo contrappunto, espressione/età, rappresentata da un numero scritto e in forma sentenziosa ribadito nell’incipit.

Testo di Barbara Pierro

La Soglia dei Novanta: L’Attesa dell’Ultimo Decennio
“10 ai cent’anni” — così risuona il sussurro di una promessa velata nel tempo, un numero che non è solo cifra, ma presagio di un’attesa sospesa sul filo del destino. Il volto serio dell’uomo, inciso da rughe che sembrano sentieri tracciati dalla mano inesorabile degli anni, è il ritratto di una mente immersa in calcoli invisibili, in bilanci senza pace. Cosa resta quando i numeri si affollano come stormi di pensieri, quando il novanta si staglia alle sue spalle come un gigante di pietra, immobile e silente?
Forse mancano davvero dieci anni al traguardo dei cent’anni, un secolo che si allunga come un’ombra incombente, e in quella mancanza si cela un’interrogazione eterna: cosa rimane da dire quando il novanta si fa presagio di centinaia? È un conto alla rovescia scandito dal battito lento del cuore, ogni palpito un eco di vita, ogni respiro una sillaba di silenzio che si fa sempre più assordante. Dieci anni, dieci passi sulla soglia del tempo, e l’uomo sembra chiedersi se questa corsa abbia davvero una meta o se sia solo un cerchio che si chiude su se stesso. Le spalle curve, appesantite non solo dal peso degli anni ma dal fardello di ciò che non è stato, di ciò che resta sospeso nelle pieghe della memoria, come foglie secche che non hanno mai toccato terra. Novanta: un numero che ha la gravità di una promessa e la leggerezza di un soffio, un numero che potrebbe significare tanto o nulla, perché ogni cifra è un segreto in attesa di essere svelato. E l’uomo, avvolto nel suo silenzio, sembra dialogare con l’ombra dei suoi stessi pensieri, con quell’imponente “90” che non è solo numero, ma specchio del suo tempo.
Mancano dieci anni, e ogni anno è un istante che si dilata, un universo che si comprime. Cosa conta di più: il traguardo o il percorso? È il domandarsi ciò che rende quest’attesa tanto più struggente, un dubbio che vibra nell’aria come una corda tesa, pronta a spezzarsi o a produrre il suono più puro. Ecco l’uomo, al cospetto dei suoi novant’anni, una figura in bilico tra la soglia e l’ignoto, tra il già vissuto e il non ancora svelato. Ogni pensiero è una ruga, ogni ruga una storia, e ogni storia è un frammento di un tempo che non conosce misura.Forse quei dieci anni non sono altro che un invito a riflettere su ciò che conta davvero, un conto alla rovescia che è meno contabile e più sensazione. È una danza di numeri e di emozioni, una sfida lanciata al futuro, un dialogo con il passato. C’è in quell’espressione pensierosa un’inquietudine quieta, una pace che si trova solo nel pieno abbraccio della propria finitezza. Dieci anni al compimento dei cent’anni: un decennio che non è solo attesa, ma un invito a vivere ogni istante con la consapevolezza di un’ultima luce, di un ultimo respiro che sa di eternità.
E allora, che importanza ha la cifra, se ogni giorno vissuto è già un dono, un frammento di quel grande mosaico chiamato vita? Che importanza ha ciò che manca, se ciò che è stato è già un universo compiuto? Il novanta campeggia a destra, ma è al centro dell’uomo che si trovano tutte le risposte, nel silenzio di un pensiero che non ha bisogno di parole per essere eterno.
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