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Io oggi esco © Marina Ciriaci

di Fabrizio Razzauti

La fotografia di Marina Ciriaci, scattata con una macchina fotografica del 1930, è una finestra visiva su un “altrove” che combina elementi di passato e presente, luce e ombra, vita e decadenza. L’utilizzo di una macchina fotografica d’epoca conferisce all’immagine un aspetto profondamente materico, dove la grana, le imperfezioni e le sfumature del bianco e nero aggiungono alla scena una qualità quasi tattile. Il soggetto sembra essere una struttura abbandonata, in cui il pavimento è cosparso di frammenti e detriti, mentre oltre le finestre si intravede la natura rigogliosa che tenta di riprendersi lo spazio.

Interpretata come “B-Side” questa fotografia diventa un’esplorazione dell’abbandono e della trasformazione. La scelta di immortalare un luogo decadente, attraverso uno strumento antico, trasmette un senso di nostalgia e perdita, ma anche di resilienza e speranza. Il “lato-B” in questo caso rappresenta ciò che è stato dimenticato, lasciato in disparte dalla modernità e dal progresso. Eppure, attraverso l’obiettivo della Ciriaci, questa struttura derelitta riacquista un’anima, diventando un simbolo della memoria e della storia che persistono nonostante il tempo e l’abbandono.

La composizione gioca con la luce che filtra attraverso le finestre, proiettando ombre geometriche che si intrecciano con i detriti sul pavimento. La luce che entra rappresenta un contrasto con l’oscurità circostante, quasi come se questo spazio dimenticato venisse momentaneamente risvegliato dalla presenza dell’obiettivo, portando alla luce una storia silenziosa ma intensa. La presenza della natura fuori dalla finestra, verde e rigogliosa, aggiunge un ulteriore livello di significato: il tempo passa, la vita continua a crescere anche quando l’uomo si allontana, e la natura si riconcilia con ciò che l’uomo ha lasciato alle sue spalle.

Scattata con una macchina del 1930, la fotografia invita anche a una riflessione sul valore del passato e sull’importanza della lentezza, della pazienza e dell’attenzione ai dettagli. In un’epoca di tecnologia rapida e scatti digitali infiniti, questa immagine ci riporta a una dimensione più lenta, dove ogni scatto è ponderato, ogni istante catturato ha un peso specifico. Il “lato-B” diventa allora anche un discorso sul valore dell’artigianalità, sulla bellezza intrinseca di strumenti imperfetti che rivelano la realtà con un’intensità che le tecnologie moderne spesso non possiedono. In conclusione, la fotografia di Marina Ciriaci è molto più di una semplice immagine di un luogo abbandonato; è una riflessione visiva sul tempo, sull’abbandono e sulla resilienza, rivelando la bellezza nascosta nelle cose dimenticate, nei luoghi che portano ancora i segni di chi li ha abitati e nei dettagli che emergono solo quando si osserva con attenzione. Attraverso l’uso di una macchina fotografica storica, Ciriaci ci invita a riscoprire la poesia della rovina e la forza del passato, rendendo omaggio a ciò che resta anche quando tutto sembra essersi fermato.

B-Side © Paolo Bonciani

di Fabrizio Razzauti

Questa foto di Paolo Bonciani è una rappresentazione incisiva della diversità fisica nel rugby, in cui ogni atleta, indipendentemente dalla forma corporea, ha un ruolo unico e un valore essenziale nel gioco. Il rugby è uno sport che abbraccia la varietà fisica, richiedendo un mix di resistenza, forza, agilità e strategia. Questo scatto riflette appieno il concetto di “B-SIDE”, rivelando un lato meno convenzionale, spesso trascurato, di ciò che significa essere atleti.

La scena mostra un contrasto evidente: un giovane con una corporatura robusta affronta un compagno più piccolo e agile, pronto a sfidarlo. L’espressione del giocatore in rosso e nero è concentrata e determinata, mentre l’altro, con la maglia numero 17, appare dinamico, reattivo e senza timore. La diversità dei fisici non è solo accettata, ma anche celebrata in questo sport, dove ciascuno può fare la differenza, indipendentemente dalla propria struttura corporea.

Il tema B-SIDE si evidenzia nel mostrare l’inclusività del rugby: un “lato B” della fisicità sportiva in cui il valore di ogni individuo è dettato non solo dalla sua forza fisica, ma anche dalla sua capacità di adattamento e dal contributo unico che può offrire alla squadra. Questa immagine invita lo spettatore a superare gli stereotipi sul fisico ideale dell’atleta, presentando il rugby come un microcosmo in cui la diversità fisica è un punto di forza e una necessità strategica.

La foto celebra dunque il rugby come uno sport democratico, in cui ogni corpo ha uno scopo e un ruolo. L’altro lato dello sport è qui espresso nella possibilità di vedere come l’essenza dell’atletismo non risieda in un singolo modello di fisico, ma nella varietà che rende questo sport ricco di possibilità e sfide.

Il volto oscuro delle solitudine © Alessandro Ciapini

di Fabrizio Razzauti

La fotografia di Alessandro Ciapini, intitolata Il volto oscuro della solitudine, è un’opera che esprime in modo forte il tema dell’isolamento umano. L’immagine ritrae una stazione deserta, immersa in un’oscurità interrotta solo da pochi bagliori di luce artificiale. Al centro, quasi invisibile nel vasto spazio vuoto, siede una figura solitaria, un uomo con una giacca scura, il cui corpo appare proiettato verso il basso, come se fosse piegato dal peso della sua stessa solitudine.

Interpretando questa fotografia come l’altro lato della realtà urbana, vediamo emergere il contrasto tra l’ambiente funzionale della stazione e la condizione emotiva del soggetto. Di giorno, una stazione è un luogo di passaggio, di movimento, ma qui, di notte e vuota, essa diventa una metafora di sospensione. La scena è carica di un senso di attesa e di staticità, dove la presenza umana sembra quasi incongrua, come se fosse intrappolata in un tempo e in uno spazio che le appartengono solo in parte.

L’uso delle luci e delle ombre è particolarmente significativo. L’illuminazione, distribuita in modo frammentato e selettivo, pone l’uomo al centro di un’isola di luce, accentuando la sua vulnerabilità rispetto all’oscurità che lo circonda. Questo gioco di chiaroscuri richiama il “lato oscuro” della solitudine, quella parte dell’esperienza umana che spesso si cela dietro la facciata della vita quotidiana, esplorando le emozioni nascoste e i momenti di introspezione che spesso passano inosservati. L’assenza di altri elementi visivi, se non le linee dei binari e delle strutture della stazione, contribuisce a isolare ulteriormente il soggetto, trasformando l’intera scena in uno spazio mentale oltre che fisico.

L’immagine diventa dunque il volto nascosto della società moderna, una riflessione su coloro che restano invisibili nel flusso incessante della vita urbana. L’uomo solo nella stazione diventa simbolo della condizione di chi, pur vivendo in mezzo a tante persone, si sente distante. Questo scatto diventa un ritratto dell’anonimato, delle storie di vita che restano non raccontate, immerse nell’ombra e nel silenzio della notte. La scelta di una stazione ferroviaria come ambientazione non è casuale: le stazioni sono simboli di partenze e arrivi, ma qui l’assenza di treni e di altri viaggiatori suggerisce un fermo immagine, un limbo esistenziale. L’uomo sembra essere in un “non luogo” uno spazio di transizione che, in assenza di movimento, si trasforma in un luogo di riflessione e malinconia. La fotografia cattura quindi l’essenza del lato-B della società, dove le strutture urbane non sono solo spazi fisici, ma anche contenitori di emozioni, di attese, di solitudini non viste.

Il volto oscuro della solitudine di Alessandro Ciapini è una fotografia che parla della condizione umana in modo profondo e toccante, senza bisogno di troppe parole. È un’immagine che ci invita a guardare oltre la superficie, a esplorare l’altro lato fatto di silenzio, isolamento e introspezione. Questo scatto ci ricorda che, anche nei luoghi di passaggio più comuni, si celano mondi interiori complessi, storie di persone, silenziose ma non invisibili, in attesa che qualcuno noti la loro presenza nel vasto paesaggio urbano.

Arance (Olive Grove-Lesbo) © Serafino Fasulo

 di Fabrizio Razzauti

La fotografia di Serafino Fasulo, scattata durante un reportage nel campo profughi di Lesbo, cattura un momento di profonda umanità che emerge dalla penombra di un contesto difficile. Il gesto di una mano che offre spicchi d’arancia fuori da una tenda assume un significato che va ben oltre l’azione stessa: rappresenta un atto di generosità e di dignità nonostante la situazione di sofferenza e precarietà.

L’ immagine rivela un aspetto nascosto e intimo della vita nei campi profughi, dove la quotidianità e la sopravvivenza si intrecciano con gesti di condivisione che spesso restano invisibili al resto del mondo. La fotografia mostra un volto solo parzialmente visibile, che emerge timidamente dalla penombra. Quest’ombra simboleggia l’anonimato e la marginalità a cui sono relegati molti dei rifugiati, persone di cui raramente conosciamo la storia e il nome, ma che con piccoli gesti come questo cercano di mantenere una connessione con l’altro, di condividere quel poco che hanno.

Gli spicchi d’arancia, così luminosi e pieni di colore, contrastano con il grigiore della tenda e la sobrietà dell’ambiente circostante. Questo contrasto cromatico è significativo: l’arancia diventa simbolo di speranza, di calore, di qualcosa di semplice ma prezioso in un contesto di scarsità. La luce che cade sugli spicchi li rende quasi simbolici, ricordandoci che anche nei luoghi più bui e in momenti di grande difficoltà, esistono gesti di compassione e di umanità.

Il «B-Side» di questa fotografia risiede nella sua capacità di rivelare un’umanità nascosta, quella dei rifugiati che spesso vengono ridotti a numeri o statistiche. Serafino Fasulo, con uno sguardo empatico e rispettoso, riesce a cogliere un frammento di autenticità e di dignità, un gesto di ospitalità che appare paradossale ma che diventa commovente, dato il contesto di privazioni. L’uomo nella penombra, che rimane anonimo, diventa il simbolo di migliaia di persone che vivono situazioni simili, nascoste e spesso dimenticate.

Serafino con questa immagine ci invita a riflettere su ciò che rimane nascosto nei reportage dei campi profughi: non solo le difficoltà e le privazioni, ma anche la capacità di resilienza e di gentilezza. Attraverso un semplice gesto di offerta, l’uomo in penombra ci ricorda l’importanza del contatto umano, anche nelle circostanze più dure, e il valore della condivisione, anche quando si ha poco o niente, con questa fotografia, si offre allo spettatore uno sguardo intimo su una realtà che spesso preferiamo non vedere, ma che ci tocca profondamente con la sua sincerità.

Collapsible model © Matteo Farolfi

 di Fabrizio Razzauti

La fotografia di Matteo Farolfi è una rappresentazione intima e introspettiva che gioca con l’idea di identità, artificialità e intimità. La scena mostra una giovane donna a torso nudo che abbraccia stretto un manichino da sartoria, un gesto che trasmette affetto e forse un senso di dipendenza. Il manichino, contraddistinto dalla scritta «Collapsible Model» diventa un simbolo della perfezione artificiale, un oggetto inanimato e senza volto che rappresenta un’ideale di corpo femminile standardizzato e privo di personalità.

Interpretare questa immagine come un «lato-B» significa cogliere i temi nascosti che emergono dal contrasto tra l’umanità della donna e l’artificialità del manichino. La donna, con i suoi tatuaggi e il suo abbraccio quasi disperato, sembra cercare un conforto in qualcosa che non può rispondere, una ricerca di connessione in un mondo che spesso impone modelli standard e irreali di bellezza e identità. Questo gesto può rappresentare un conflitto interiore tra l’essere sé stessi e il desiderio, conscio o inconscio, di adattarsi a canoni esterni e idealizzati.

Il bianco e nero enfatizza questo contrasto, sottraendo colore e riducendo la scena a una combinazione di luci e ombre, suggerendo una profondità emotiva e psicologica. La scelta stilistica richiama l’estetica vintage, con riferimenti a un tempo in cui l’industria della moda e della bellezza imponevano (e continuano a imporre) modelli rigidi di corpo e aspetto. La superficie segnata e testurizzata dello sfondo, insieme alle scritte visibili, rimanda al linguaggio di cliché e impersonale, che entra in conflitto con la delicatezza e vulnerabilità del corpo umano.

L’immagine diventa una riflessione sulla tensione tra autenticità e conformità. Il manichino, vuoto e rigido, rappresenta una forma priva di anima, ma è avvolto in un abbraccio umano, segno che esprime il desiderio di trovare accettazione o di identificarsi con un ideale esterno. La donna, a contatto con questa figura inanimata, sembra evidenziare il dilemma della ricerca di sé e del proprio valore in un mondo che spesso giudica e misura secondo standard predefiniti.

Matteo Farolfi sembra esplorare la vulnerabilità e il paradosso dell’essere umano, diviso tra il bisogno di appartenenza e l’unicità dell’identità personale. Il manichino diventa simbolo della pressione sociale, mentre la donna rappresenta il lato autentico, spesso soffocato o nascosto, che cerca di emergere. Questa immagine invita lo spettatore a riflettere su quanto di noi stessi è autentico e quanto è invece plasmato dall’esterno, in una continua tensione tra ciò che siamo e ciò che vorremmo (o dovremmo) essere.

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