«Tengo nelle tasche sogni! strani, sogni» © Patrizia Mori
Testo di Fabrizio Razzauti
Un giovane uomo, vestito con sobria eleganza, siede tenendo una sigaretta tra le dita in un ambiente che ha conosciuto tempi migliori. Il suo sguardo è fisso verso il basso, perso nei suoi pensieri. Le sopracciglia leggermente aggrottate e le labbra dischiuse tradiscono una vena di malinconia che percorre il suo viso. Riferimenti alla tematica esistenziale e introspettiva che caratterizza la canzone “Confiteor”: un’auto-confessione di un uomo tormentato alle prese con senso di “inconcludenza”, fragilità e incomunicabilità.
Testo di Barbara Pierro
Tengo nelle tasche sogni! strani, sogni” – Il Riflessionista Sospeso
Un uomo si staglia al margine di una stanza che pare sospesa nel tempo, come un frammento di un sogno interrotto. Patrizia Mori cattura un attimo di malinconia e contemplazione, un respiro trattenuto nell’aria stantia di una casa che sembra conoscere solo il linguaggio del silenzio. Seduto al confine tra l’interno e l’esterno, tra il chiuso e l’aperto, il protagonista trattiene tra le dita una sigaretta, una piccola fiammella di esistenza che brucia lenta, consumandosi senza fretta, in un rito intimo e quotidiano. La sua figura, assorta e fragile, evoca una giovinezza che non è più fresca ma neppure ancora svanita; è una giovinezza che contempla se stessa nel riflesso della vita che scorre, che si interroga sul proprio destino con l’espressione di chi ha imparato a decifrare le ombre sulle pareti, i segreti sussurrati dai mobili vecchi, i sussulti del pavimento sotto i piedi. C’è un mondo che si agita nei suoi occhi, un universo di sogni che si annida nelle pieghe della sua camicia sgualcita, tra le rughe dei pensieri che non trovano pace.Mori ci offre un ritratto di una solitudine che non è isolamento, ma un dialogo con l’invisibile. Ogni oggetto nella stanza, dalla sedia abbandonata alla porta socchiusa, è un simbolo muto di possibilità e rimpianto, di sogni che si tengono stretti nelle tasche, sogni strani, irrequieti, forse irrealizzabili, ma che esistono proprio perché credere in essi è l’unico modo per sentirsi vivi. È come se il giovane uomo stesse dialogando con l’infinito, in un linguaggio fatto di silenzi e pause, un lessico senza parole che solo gli spiriti irrequieti sanno comprendere.In quell’atto semplice e complesso di tenere un sogno tra le dita, Mori distilla l’essenza di un’esistenza interiore profonda e sommessa. Le pareti della stanza diventano un palcoscenico per un monologo muto, una riflessione sull’essere e sul sentire, sul peso dei giorni che scivolano come cenere e sulla forza di continuare a sognare, nonostante tutto. È un momento rubato al tempo, un fermo immagine che parla delle nostre stesse inquietudini, della bellezza sottile di un pensiero che si disperde nell’aria, insieme al fumo di una sigaretta.“Tengo nelle tasche sogni! strani, sogni” è una dichiarazione di resilienza, una promessa a sé stessi, un modo di sopravvivere ai giorni uguali, di rendere sacro ciò che è ordinario. Mori non ci mostra un eroe, ma un essere umano, nella sua semplicità e complessità, nella sua resa e nel suo desiderio di riscatto. E in questo ritratto senza tempo, ciascuno di noi può specchiarsi, riconoscendo nei lineamenti di quel giovane l’eco dei propri sogni mai confessati, dei propri desideri tenuti segreti, di quell’irrinunciabile anelito verso un domani che, forse, ci renderà finalmente liberi.