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«La grotta dell’amore» © Giancarlo Ballo

Testo di Athos Rosini

È un immagine piacevolmente formale, ricca di simbolismi: acqua, cielo, ombre, riflessi è “la grotta dell’amore” poesia cantata di Piero Ciampi. Non stiamo fermi ad attendere il movimento dell’acqua, non perdiamo le opportunità che la vita, ogni giorno ci prospetta, lanciamo un sasso, anche più di uno, nell’acqua perché le cose/amore accadano.

Testo di Barbara Pierro

L’Antro delle Rivelazioni
– L’Abbraccio del Silenzio
Nell’opera fotografica “La grotta dell’amore” di Giancarlo Ballo, l’immagine si schiude dinanzi a noi come una visione arcana, un portale verso una dimensione al di là del tempo e dello spazio, dove l’anima si rifugia per cercare risposte che il mondo esterno non può offrire. La grotta, catturata in bianco e nero, si staglia come un tempio naturale, un ventre oscuro e accogliente che sembra pulsare di vita propria. Le sue pareti, scolpite dai secoli e dalle acque, raccontano storie antiche, sussurrano segreti di un passato dimenticato, mentre il gioco delle ombre e delle luci trasforma ogni curva e ogni rilievo in un’epifania misteriosa.Questo antro, luogo di raccoglimento e di introspezione, non è semplicemente una caverna; è uno spazio sacro, un grembo che accoglie e custodisce le verità più profonde. Le sue profondità sembrano estendersi all’infinito, come un corridoio verso il cuore dell’esistenza, un viaggio interiore che si snoda tra le pieghe della coscienza e dell’inconscio. Ogni ombra che si insinua tra le rocce, ogni riflesso che balugina lieve, sembra un frammento di un sogno ancestrale, un invito a perdersi per ritrovarsi, a scendere nelle profondità dell’ignoto per scoprire ciò che realmente risiede nel nostro essere.
– L’Incedere della Silhouette
In basso a sinistra, una figura di donna si staglia di profilo, un’apparizione eterea e sfuggente che avanza in un movimento sospeso tra il mondo del reale e quello dell’immaginazione. Ella non è solo un personaggio che attraversa la scena, ma un simbolo vivente del cammino interiore, del percorso che ogni individuo intraprende nel vasto e oscuro antro del proprio cuore. Il suo passo è lieve, quasi fluttuante, come se ogni contatto con il terreno fosse una carezza, un tocco gentile alla sacralità della terra. La donna è avvolta da un’ombra che non la inghiotte, ma la accoglie come una madre accoglie il suo bambino; è un abbraccio morbido e rassicurante, una coperta di oscurità che protegge e cela, mentre la luce che si insinua dall’ingresso della grotta sfiora appena la sua silhouette, rendendola parte di un dualismo tra luce e tenebra, tra rivelazione e mistero. Ella avanza, ignara degli sguardi del mondo, immersa in un dialogo silenzioso con le pareti dell’antro che sembrano risponderle, accompagnandola in questo viaggio solitario e universale.
– L’Allegoria del Ritrovamento
L’antro diventa allora allegoria di una ricerca incessante: quella dell’amore, della verità, dell’essenza ultima dell’esistenza. Non è un caso che il titolo stesso parli di una grotta d’amore; qui l’amore non è solo quello romantico, ma l’amore come forza cosmica, come energia primordiale che muove e unisce ogni cosa. Le stalattiti e le stalagmiti che si protendono come braccia pietrificate verso il centro della grotta sembrano partecipare a una danza immobile, un’antica coreografia di creazione e distruzione, di nascita e morte, in cui ogni goccia d’acqua che cade è un battito, un respiro di quel grande cuore che è l’universo.L’antro si trasforma così in una cattedrale naturale, un luogo di devozione non a un dio visibile, ma a quel divino che risiede dentro ogni cosa, ogni pietra, ogni essere vivente. La grotta stessa diviene un custode di promesse, di sogni infranti e di speranze mai del tutto abbandonate. In questo scenario senza tempo, la donna non è solo una viaggiatrice, ma una sacerdotessa silenziosa che attraversa l’altare dell’esistenza, un ponte tra il tangibile e l’intangibile, tra ciò che si vede e ciò che si sente nelle profondità dell’anima.
– Il Sussurro delle Pietre
Le pareti della grotta parlano, non con parole, ma con vibrazioni, con il muto linguaggio delle pietre che hanno visto passare ere e destini. Esse ci ricordano che ogni viaggio è circolare, ogni scoperta porta inevitabilmente a un ritorno alle origini. Il bianco e nero dell’immagine non sottrae ma arricchisce; depura l’esperienza, distillando il visibile in un’essenza che trascende il colore per abbracciare il puro, il vero, il non detto. È come se l’immagine stessa volesse strappare via il superfluo, lasciando solo l’essenza di ciò che è realmente importante: l’amore, la ricerca, il coraggio di avanzare anche quando il cammino si perde nelle ombre.E così, “La grotta dell’amore” di Giancarlo Ballo diventa più di una fotografia; diventa un invito a riflettere sul nostro cammino, sulla luce che cerchiamo e sulle ombre che ci portiamo dietro. È un monito dolce e potente a ricordare che, in ogni passo che facciamo, anche nell’oscurità più fitta, esiste una bellezza nascosta, una verità silenziosa che attende di essere scoperta. Nella donna che incede, nei contorni sfumati delle rocce, nella luce che si fa strada tra le fessure, si ritrova l’eco di un amore che è più grande, più antico e più profondo di qualsiasi parola possa mai descrivere.
Alla fine, siamo tutti viaggiatori in una grotta che chiamiamo vita, e ogni passo, ogni respiro, ogni sguardo è un tributo a quel mistero che ci guida e ci tiene. È un viaggio senza mappe, senza certezze, ma con la promessa eterna che anche nell’ombra più oscura, c’è sempre una luce pronta a guidarci verso il prossimo battito, verso il prossimo respiro, verso il prossimo amore che ci attende nell’antro sacro del nostro esistere.

«E’ tutto un sogno» © Paolo De Falco

PREMIO IN-CIAMPI DI FOTOGRAFIA

Testo di Athos Rosini

È un immagine volutamente scorretta, un vecchio frame sfuocato e quello che vediamo è la proiezione di un ricordo sul muro della memoria. Un uomo è immobilizzato nell’istantanea, ma nella nostra immaginazione sta camminando verso la sua sera, è una sera triste perché la vita gli è stata nemica.

Motivazione del Premio

L’immagine presenta una figura solitaria che cammina quasi in maniera incerta in un paesaggio desolato e avvolto in una foschia densa quasi opprimente. Il chiaroscuro accentua il senso di malinconia e isolamento, elementi che ben si collegano alla poetica di Ciampi. Piero è noto per le sue canzoni intrise del senso di solitudine, sofferenza e riflessione esistenziale. La sua musica spesso esplora temi di amore perduto, alienazione e la ricerca di significato in un mondo indifferente. Questa fotografia, con la sua atmosfera cupa e il soggetto solitario, rispecchia perfettamente questi temi, quasi a poter essere la copertina di un album del nostro cantautore.

L’immagine potrebbe rappresentare un viaggio interiore, un percorso solitario attraverso i tormenti e le incertezze della vita. La figura sfuocata e indefinita può simboleggiare la vulnerabilità dell’essere umano di fronte alle difficoltà esistenziali.

In sintesi, la fotografia di Paolo De Falco cattura lo spirito della poetica di Piero Ciampi, evocando quel mondo di introspezione, dove l’individuo è in costante lotta con i propri demoni interiori e con la realtà che lo circonda.

Testo di Barbara Pierro

Lo scatto «È tutto un sogno» di Paolo De Falco, emerso trionfante, nella recente edizione del Premio «In-Ciampi di Fotografia», si staglia, come un emblema di complessità semantica e tensione estetica. Esso non è soltanto una fotografia, ma un’incursione nell’interiorità, un viaggio metatemporale che si tesse, tra i fili evanescenti della memoria e dell’essere.Nell’immagine si scorge una figura solitaria che, come un moderno flâneur, si addentra in un paesaggio dove la foschia non è soltanto un fenomeno atmosferico, ma una metafora ontologica del non-detto, del non-visto, dell’incompiuto. L’essenza dell’individuo, qui, si manifesta, come ombra sfuggente, una proiezione evanescente, di un’esistenza che si dissolve nell’indeterminatezza del tempo e dello spazio.
De Falco, con una maestria che rasenta il trascendente, plasma un chiaroscuro che non è mero espediente stilistico, ma diventa il veicolo di un messaggio esistenziale. Il nero e il bianco, il chiaro e lo scuro, si amalgamano ,,in una danza dialettica che non si limita a evocare la solitudine, ma la interroga, la scompone, la esalta in tutta la sua tragica bellezza. La foschia, quasi materica nella sua densità, avvolge il soggetto come il manto del destino, suggerendo un isolamento che non è solo fisico, ma esistenziale, un isolamento che, come ci insegnano i versi di Piero Ciampi, è al contempo il rifugio e la prigione ,dell’anima tormentata.
Il soggetto solitario, che emerge sfocato e quasi disciolto nel suo contesto, diventa l’archetipo dell’uomo contemporaneo, perduto, nel labirinto della propria psiche, in un percorso circolare che non trova mai, un centro stabile. L’immobilità apparente dell’uomo, cristallizzato in un attimo eterno, suggerisce una sospensione temporale che è tanto più inquietante, quanto più appare normale. Egli è in cammino verso la sera, ma questa sera non è solo la fine del giorno: è la sera dell’esistenza, la discesa nel crepuscolo di una vita che sembra aver trovato ,più ostacoli che vittorie. L’immagine si fa così palinsesto di significati, dove ogni sfumatura, ogni dettaglio parla una lingua propria. È un racconto senza parole, un poemetto visivo che evoca, allude, ma non svela mai completamente. De Falco, con un’intuizione da demiurgo, ci consegna non solo un’immagine, ma un frammento di vita, un pezzo di anima estratto dall’ombra e reso visibile solo per un istante, prima di rituffarsi nell’indicibile. L’opera si colloca, dunque, all’incrocio tra fotografia e metafisica, tra estetica e poetica, rivelando una riflessione profonda, sulla condizione umana. Come i più alti esponenti della riflessione critica, De Falco ci lascia con una domanda aperta, una sfida lanciata allo spettatore: chi è quest’uomo, che non è altro che il riflesso della nostra stessa ombra? È un sogno, o forse, è il sogno di una vita che, come quella del cantautore Ciampi, naviga tra le maree del disincanto e della nostalgia, sospesa tra la memoria e l’oblio.
In definitiva, «È tutto un sogno» non è solo una fotografia: è un atto di creazione, una meditazione visiva che trascende la forma e si radica nell’essenza stessa dell’umano, rendendola eterna nella sua fragile evanescenza.

 

«Sporca estate I» © Daniele Stefanini

Testo di Athos Rosini

Immagine graficamernte spinta al limite della leggibilità. Ma c’è quanto basta per attivare la nostra memoria che è portatrice di personali ricordi e di navi che partono in una sera di una “sporca estate”.

 

Poesie di Nella Tarantino

Sporca Estate

Cielo di sabbia e fumo

e rare lontananze

e un molo mozzo

di macchine stanche

acqua come petrolio

nera come la notte

inghiotte la tua nave

in questa sporca estate

sul porto di Livorno.

La tristezza inconscia de le cose (1)

Piero Ciampi come Modigliani, 

Piero Ciampi come Dino Campana,

Genova la sua Livorno.

Troppo amore, disperazione dell’amore.

Sembra di vederlo, ancora, Piero Ciampi,

intravedere la sua ombra, oscillare tra i fanali del porto

e i vichi marini e il cigolio di catene delle gru

e una nave che salpa verso il cielo delle illusioni.

E quanto amore, e quel disperato amore,

dietro la finestra la luce ancora accesa

ed il suo viso,

e la luce già si è spenta

e la sua assenza

ed il suo amore e quanto amore

e la rabbia sola che resta

e ancora cosa resta

di questa sera ambigua

e di questo cielo sporco di nuvole

e di quest’uomo stanco.

(1) Dino Campana, Genova, Canti Orfici, 1914

Testo di Barbara Pierro

Sporca estate I” – Un Tuffo nell’Oscurità del Reale
Un’immagine che si staglia come un grido sordo nell’infinito, un fotogramma che cattura il respiro stanco di un’estate consumata dall’ardore e dall’oblio. Questa fotografia di Daniele Stefanini non è solo uno scatto, ma un portale aperto su una dimensione in cui la luce e l’ombra si fondono in una danza arcana, crudele e sincera. La grana ruvida, come polvere di stelle cadute, ricopre ogni angolo della scena, conferendole una qualità onirica, quasi surreale, eppure così dolorosamente reale.Lo sfondo è un mare scuro, cupo come il pensiero più nascosto, mentre una nave si allontana, caricandosi di un fumo nero che si dissolve nel cielo grigio, quasi fosse il respiro pesante di un colosso meccanico in fuga. Sembra raccontare la storia di un abbandono, di un addio mormorato all’acqua e al vento, un’epopea silenziosa di partenze e ritorni mai avvenuti. E accanto, la gru si erge come un antico guardiano, un Golia d’acciaio che vigila senza giudizio, spettatore impassibile di un mondo che cambia, eppure resta immutato nella sua ciclica disperazione.Le sfumature grigie e nere avvolgono lo sguardo, come se la fotografia stessa volesse imprigionarci in un sogno febbrile da cui è impossibile fuggire. È un’estate sporca, quella di Stefanini, dove il calore non è mai confortante, ma sempre gravido di presagi e fumi tossici che si intrecciano nell’aria. È un’estate che puzza di salsedine, di ferro arrugginito e di fatica umana, un’estate che si dipinge da sola sulle tele sgualcite delle nostre memorie.C’è qualcosa di ancestrale in questa scena, un eco lontano che richiama a miti dimenticati, a un tempo in cui gli uomini e le macchine non erano che embrioni di una visione futura, incerti del proprio posto nell’universo. L’opera di Stefanini ci parla con la voce del più sagace degli oracoli: una voce che non è né giudice né salvezza, ma solo testimone di un’umanità che si dibatte nel buio, sperando di intravedere, oltre la foschia, un frammento di luce.”Sporca estate I” è, in definitiva, un ritratto senza compromessi del nostro mondo contemporaneo, un mondo che naviga verso l’ignoto tra nubi di fumo e polvere, in cerca di una redenzione che appare distante quanto il sole dietro una coltre di tempesta. Un’immagine che ci lascia col fiato sospeso, sospinti da una corrente che sa di malinconia e dolente bellezza, spingendoci a riflettere su chi siamo e su cosa siamo disposti a lasciare indietro nel nostro viaggio periglioso verso l’orizzonte.

«Cosa resta di noi due» © Patrizia Mori

MENZIONE SPECIALE PREMIO IN-CIAMPI DI FOTOGRAFIA

Testo di Athos Rosini

Una scena sapientemente costruita che vuole esplicare le incomprensioni e le difficoltà comunicative nel rapporto di coppia. Scrittura fotografica di tipo cinematografico e messa in scena chiara senza formalismi. Composizione diagonale con distorsione prospettica per l’uso di una corta focale e presa dall’alto. La ragazza tiene senza riserve la scena, ha gli occhi puntati verso di noi con un’espressione interrogativa/assertativa. È solo un frame la storia continua e ci fa riflettere l’interrogativo “cosa resta di noi due”.

Motivazione della Menzione Speciale

L’immagine rappresenta due persone in una stanza spoglia e decadente, con una donna seduta sul bordo del letto e un uomo disteso dietro di lei. L’atmosfera è carica di tensione emotiva e malinconia, con una sensazione di distanza e incomunicabilità tra i due soggetti. L’uso del bianco e nero amplifica il senso di dramma e introspezione, creando un ambiente quasi teatrale.

L’immagine richiama immediatamente il tema caro a Piero Ciampi, che ha spesso esplorato le complessità della relazione uomo-donna, l’amore tormentato e la solitudine. Le sue canzoni lo sappiamo sono piene di introspezione e di un crudo realismo emotivo, elementi che si ritrovano chiaramente in questa fotografia.

La donna seduta, con un’espressione pensierosa e interrogativa diventa un’icona dell’inquietudine. L’uomo disteso, con la schiena rivolta verso di lei, suggerisce una distanza emotiva o una frattura nella relazione, un tema ricorrente in Ciampi, dove l’amore spesso si scontra con l’incomprensione e il successivo dolore.

L’immagine può essere vista come una visualizzazione di numerose canzoni di Ciampi, dove ogni testo è una finestra aperta sulle sofferenze e le gioie dell’esistenza umana. La stanza spoglia e decadente, rappresenta un palcoscenico intimo, dove si svolge il dramma interiore dei personaggi e dove la scena quotidiana si trasforma in una riflessione poetica sulla vita.

In sintesi, questa fotografia evoca un mondo di emozioni intense e complesse, dove l’amore, la solitudine e la ricerca di significato della vita di coppia si intrecciano in un delicato equilibrio di luce e ombra.

Testo di Barbara Pierro

La fotografia di Patrizia Mori, intitolata, Cosa resta di noi due, si erge come una testimonianza sublime, della condizione umana, un’immersione viscerale, nell’intimità più cruda e nelle pieghe più nascoste, dell’essere.In quest’opera, la luce e l’ombra danzano, in un equilibrio perfetto, delineando non solo i contorni fisici dei soggetti, ma anche le loro profonde fratture emotive. La donna, seduta sul bordo del letto, diviene un simbolo universale ,dell’inquietudine e della ricerca di significato, il suo sguardo interrogativo rivolto non solo verso lo spettatore, ma verso l’abisso delle proprie insicurezze. L’uomo disteso, voltato con la schiena a lei, è il sigillo del distacco, l’emblema di una distanza che non è solo fisica ma spirituale, un’assenza che urla ,nel silenzio della scena. La stanza spoglia, quasi decadente, diviene il palcoscenico di una tragedia intima e silente, dove ogni elemento scenografico, è impregnato di significato. Le pareti spoglie sono lo specchio ,di un vuoto interiore che si fa spazio ,tra i due protagonisti, e il bianco e nero dell’immagine amplifica il senso di desolazione, di un mondo ridotto, alla sua essenza, più nuda e crudele.
Non è solo una fotografia quella che ci viene offerta, ma un affresco di emozioni che si sovrappongono e si fondono, richiamando alla memoria, le tematiche care a Piero Ciampi, cantore delle complessità dell’amore e delle sue inevitabili sofferenze. Ogni dettaglio di questa immagine è una pennellata su una tela invisibile, dove la luce diviene colore e l’ombra una linea di confine, tra il visibile e l’invisibile.
Il testo critico, poi, di Athos Rosini, con la sua meticolosa disamina, non fa che arricchire la fervida comprensione di questa opera d’arte, sottolineando la sapienza ,con cui la Mori ha orchestrato ogni elemento della composizione. La sua scrittura fotografica è un esempio di rigore stilistico e profondità emotiva, un frammento di tempo che riesce a racchiudere un’intera vita, di silenzi e domande inevase.
“Cosa resta di noi due” non è solo una domanda sospesa nell’aria, ma un eco che risuona nell’animo di chiunque si soffermi ad osservare, a sentire. È una riflessione poetica sul dramma quotidiano dell’esistenza, un invito a esplorare le profondità dell’amore e della solitudine, a interrogarsi su cosa rimanga, quando tutto il resto svanisce.
Con la più sincera ammirazione e gratitudine, desidero riconoscere in quest’opera non solo il talento di Patrizia Mori, ma anche la capacità rara di toccare corde invisibili, di evocare mondi interiori ,con una semplice immagine. Un dono prezioso, questo scatto, che resterà impresso non solo nella memoria, ma nell’anima di chi ha la fortuna di incontrarlo lungo il cammino della propria esistenza!
Ed ancora, innanzi a tale prezioso scatto,il mio animo gravido di reverente meraviglia, si eleva, ad estrinsecare un ringraziamento che non è mera formalità, ma piuttosto un atto di comunione spirituale, un abbraccio silenzioso tra lo sguardo che osserva e l’immagine che si rivela. La fotografia di Patrizia Mori, intitolata Cosa resta di noi due, non è solo una rappresentazione, ma un varco, verso un altrove indefinito, un invito a perdersi ,nei labirinti dell’anima, dove ogni angolo nasconde una verità sepolta, un desiderio inespresso, una ferita che ancora sanguina.
Nella penombra della stanza decadente, la luce si fa materia, plasmando i volti e i corpi dei due protagonisti come fossero statue, di un antico tempio dimenticato. Il bianco e nero non è semplicemente un espediente estetico, ma una scelta che affonda le sue radici ,nella tradizione più nobile dell’espressione artistica, là dove il colore è sacrificato sull’altare della purezza visiva, dove la dualità cromatica diventa specchio, dell’eterna dicotomia ,tra l’essere e l’apparire, tra l’amore e la sua ineluttabile, dissoluzione.
La donna, seduta sul bordo del letto, è un enigma, avvolto nel mistero. Il suo sguardo non si rivolge ,semplicemente ,verso chi osserva, ma trapassa la superficie dell’immagine per scavare, nei recessi più oscuri del nostro inconscio. Vi è una tensione irrisolta nei suoi occhi, una domanda che non trova risposta, un lamento silente che riecheggia ,nei meandri dell’essere. È la personificazione dell’inquietudine, dell’eterno interrogativo, che attanaglia ogni anima sensibile: chi siamo quando l’amore si sfalda? Cosa resta di noi, quando tutto ciò che abbiamo costruito si sgretola, sotto il peso dell’incomprensione e del dolore?
Dietro di lei, l’uomo disteso, voltato di spalle, sembra incarnare l’assenza, una presenza che si dissolve, una figura che si sfuma, nei contorni incerti della memoria. Egli è lo spettro di un legame che non riesce più a comunicare, il fantasma di un amore che si è spento, lasciando dietro di sé solo un vuoto incolmabile. La sua posizione, apparentemente serena, tradisce una distanza che è più emotiva che fisica, una frattura ,che non può essere sanata con le parole, ma che si approfondisce nel silenzio di quel letto disfatto, testimone muto, di notti insonni e pensieri tormentati
La stanza stessa, con le sue pareti spoglie e consumate dal tempo, diventa un terzo personaggio, in questo dramma intimo, un testimone silenzioso, del crollo interiore dei protagonisti. Essa è lo spazio metafisico ,dove si intrecciano le loro esistenze, un palcoscenico vuoto su cui si rappresenta la tragedia dell’incomunicabilità, dell’amore che si trasforma in solitudine. Ogni angolo, ogni crepa, sembra sussurrare storie di amori passati, di speranze disilluse, di sogni infranti.
La chiosa esegetica che accompagna questa fotografia, offerta con rara maestria da Athos Rosini, non è semplicemente un commento critico, ma una chiave di lettura che svela i significati nascosti, le trame sottili che tessono l’ordito di questa immagine. Egli parla di una “scrittura fotografica di tipo cinematografico”, e non si potrebbe trovare espressione più appropriata: ogni dettaglio è infatti curato, con la precisione di un regista, che orchestra una scena cruciale, dove la prospettiva diagonale e la distorsione dell’immagine, creano un senso di disorientamento, una vertigine che riflette lo smarrimento interiore dei protagonisti.
Ma vi è di più. Questa fotografia non si limita a raccontare una storia, di incomprensione e distanza, ma si addentra nei territori inesplorati ,della psiche umana, là dove le ombre sono più fitte e le paure, più radicate. L’immagine diventa un viaggio introspettivo, un percorso nelle profondità dell’inconscio, dove ogni gesto, ogni sguardo, si carica di significati ,molteplici e ambigui. È una riflessione sull’amore come esperienza totalizzante e, al contempo, distruttiva, un sentimento che può elevare o annientare, a seconda di come viene vissuto. Il quesito che si pone, “cosa resta di noi due”, non è solo una domanda rivolta ai protagonisti della scena, ma un interrogativo universale ,che tocca le corde più intime di chiunque abbia amato e sofferto. È una domanda che risuona nell’eternità, che non trova risposta nel razionale, ma solo nell’emozionale, nel vissuto di ogni essere umano che si è confrontato con la perdita, con la fine di un legame che sembrava indissolubile.In questo scatto, Patrizia Mori non ha semplicemente catturato un momento, ma ha cristallizzato un’emozione, ha dato forma visiva a un sentimento che è al contempo, personale e universale. La sua opera è un invito a riflettere, a guardare oltre la superficie delle cose, a immergersi nelle profondità dell’anima per scoprire cosa veramente resta di noi, quando tutto il resto svanisce. E per questo dono, per questa visione che arricchisce e sfida, non si può che esprimere un ringraziamento che trascende le parole, un grazie che nasce dal profondo, dove risiedono le emozioni più autentiche e durature.

 

Enrico Berlinguer, tra storia e memoria

Una giornata, quella di martedì 11 giugno, tra storia e memoria, in occasione del quarantesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer.

Così Athos Rosini, curatore di questa giornata:
«Il mio ricordo va a Enrico Berlinguer segretario del partito comunista italiano e la prima cosa che mi viene da pensare, semplicemente, è che sia stato una persona perbene e soprattutto un politico intellettualmente onesto. Ha rappresentato una speranza per l’Italia e per l’Europa, incarnando quel comunismo capace di aggiornarsi, avendo ben salde le radici nei valori della resistenza e lo sguardo puntato avanti. Sono passati 40 anni dalla sua prematura morte e quei giorni vengono ancora ricordati come la fine di una grande storia, di una stagione che si stava chiudendo. Fu colto da un improvviso malore a Padova durante un comizio per la campagna politica delle elezioni europee dell’84 e nonostante il dolore fisico terminò il suo intervento tra gli applausi e la commozione di chi aveva capito che qualcosa di terribile stava per accadere. Dopo quattro giorni di coma fu data la notizia della sua morte. I funerali si tennero a Roma il 13 giugno e c’erano tutti: tanta gente comune, i suoi compagni, i suoi avversari, i più grandi capi di stato e di governo. Si dice non meno di due milioni di persone, tutti a rendergli omaggio, a dirgli addio. Tra quelle persone c’ero anche io e ricordo una folla immensa, dispersa ovunque: per le strade, sui marciapiedi, arrampicati sui lampioni, in piedi sui tetti delle macchine. Le immagini che vedete in questa esposizione sono un ricordo personale di quella giornata, integrato dalle prime pagine dell’Unità, quotidiano politico del PCI, che riportavano le notizie di quei giorni concitati.»

La Mostra fotografica «Gli ultimi giorni di Berlinguer» con le foto di Athos Rosini sarà visitabile tutta la giornata di martedì 11 giugno dalle ore 10 alle 20 negli spazi di Extra Factory a Livorno, piazza della Repubblica (angolo Pina d’Oro). Sarà inoltre proiettato in loop il docufilm del 1984 «L’addio a Enrico Berlinguer» in cui oltre trenta registi italiani, tra cui Ettore Scola, i fratelli Bertolucci e Carlo Lizzani, documentarono il funerale. Nel montaggio supervisionato da Ugo Gregoretti si sovrappongono con rigore e omaggio le scene di massa e suggestive riprese aeree. Al centro, le interviste a esponenti politici, personaggi noti, uniti alla commozione di tanta gente comune.

Alle 18.30 nell’auditorium di Extra l’intervento dello storico Enrico Mannari per raccontare il legame di Berlinguer e Livorno.

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