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«Ombra che fugge al mattino» © Anca Corut

Testo di Fabrizio Razzauti

Sagome di persone scure, allungate e sfocate, quasi a voler sottolineare la loro transitorietà e la loro fragilità in antitesi alla solida e immutabile figura del Duomo sullo sfondo, simbolo del tempo che sovrasta, passa e tutto travolge. Il cielo grigio rende l’atmosfera cupa e malinconica come a ricordarci le difficoltà e gli ostacoli che la vita ci riserva, tuttavia in sovrapposizione una lanterna che diventa un barlume di speranza e un invito a vivere con intensità e passione, nonostante la consapevolezza della caducità della vita.

Testo di Barbara Pierro

Ombra che fugge al mattino – l’evanescente scatto di Anca Corut – si configura come una tessitura sottile di sogni sfumati, un mosaico di presenze che s’infrangono come vapore al contatto con la prima luce del giorno. È un’opera in cui il visibile si contorce in arabeschi di trasparenze, un palinsesto di ombre e spiriti che si sottraggono alla gravità del mondo materiale. Ogni figura è un’eco, un’orma che non lascia traccia sul selciato del tempo, come se la realtà si fosse improvvisamente svestita delle sue vesti tangibili per farsi pura reminiscenza, una danza leggera tra i filamenti dell’eterno.L’architettura gotica che si staglia sullo sfondo, con le sue guglie affilate rivolte al cielo, sembra evocare un monito antico, un richiamo al sovrasensibile, mentre le silhouette dei passanti, evanescenti e multiple, paiono dissolversi nell’incorporeità dell’alba, confondendo il confine tra il qui e l’altrove. È il passaggio dell’essere nell’inesistenza, la testimonianza che ogni attimo vissuto è solo un riflesso, un’ombra di qualcosa di più vasto e ineffabile.In questo scatto, la città si muta in un limbo onirico, sospeso tra la veglia e il sonno, in cui ogni passante diventa un’idea platonica, un’ombra che attraversa le forme ma non vi appartiene. È una visione in cui il tempo si ritrae, schiacciato tra un passato che non cessa di esistere e un futuro che mai giunge, rimanendo in una perenne crepuscolare assenza. La luce, fredda e distante, non è che un filo che tenta di tessere una trama di senso, ma le ombre ribelli scivolano via, fuggendo come fantasmi che rifiutano di essere catturati. Esse si fanno paradigma dell’esistenza stessa: sfuggevole, indefinita, un eterno divenire senza meta né inizio. Così, Ombra che fugge al mattino non è solo uno scatto: è una meditazione visiva sull’essenza dell’umanità, un elogio al fuggevole e al transitorio, un invito a contemplare l’infinita malinconia del passaggio.

«Tengo nelle tasche sogni! strani, sogni» © Patrizia Mori

Testo di Fabrizio Razzauti

Un giovane uomo, vestito con sobria eleganza, siede tenendo una sigaretta tra le dita in un ambiente che ha conosciuto tempi migliori. Il suo sguardo è fisso verso il basso, perso nei suoi pensieri. Le sopracciglia leggermente aggrottate e le labbra dischiuse tradiscono una vena di malinconia che percorre il suo viso. Riferimenti alla tematica esistenziale e introspettiva che caratterizza la canzone “Confiteor”: un’auto-confessione di un uomo tormentato alle prese con senso di “inconcludenza”, fragilità e incomunicabilità.

«L’amore è tutto qui» © Francesco Luongo

Testo di Fabrizio Razzauti

Una coppia di anziani si sostiene per mano per un bagno, il mare è calmo, il sole risplende. L’ombrellone è pronto a proteggere dall’intensa luce al loro ritorno. Tranquillità, protezione, armonia ed equilibrio accentuati dalla simmetria della composizione in cui tutto risulta in ordine. Un’immagine che diventa metafora della vita di coppia e dell’amore – tu vai sicura, vai così perché io son sempre qui – fatta di piccoli gesti quotidiani e che nella canzone di Piero rimane nel «mondo dell’illusione».

Testo di Barbara Pierro

Sotto un sole che si riflette in migliaia di piccole onde e incorniciato da un ombrellone solitario sulla riva, una coppia avanza lentamente verso il mare. Due figure che, con passo incerto, camminano fianco a fianco, immerse fino alle ginocchia nell’acqua cristallina. Le loro mani si tengono strette, intrecciate come le radici di due alberi cresciuti insieme nel tempo.Non c’è fretta, non c’è urgenza. Ogni passo è un piccolo rituale, una danza silenziosa di chi conosce il ritmo del tempo che scorre ma non ha paura di seguirlo. Sulla riva, sotto l’ombrellone, gli oggetti quotidiani: una borsa abbandonata, un asciugamano, un libro lasciato a metà. Piccoli segni di una giornata al mare, momenti di una vita semplice e condivisa. Il mondo intorno scompare, si riduce a un battito di ciglia, a un respiro profondo che riempie i polmoni con il sale del mare e la nostalgia di ciò che è stato. La riva sassosa e le acque calme riflettono una storia senza parole, un amore che non necessita di spiegazioni né di grandi gesti per esistere. Si basta da sé, si nutre della quiete delle mattine estive, delle onde che lambiscono i piedi e delle risate che si perdono nel vento.Sono l’incarnazione di un tempo che non si può fermare ma che si può vivere con pienezza, uno accanto all’altro, senza bisogno di altro se non di quel semplice contatto. Mani che si stringono, che si sostengono in un equilibrio fragile e potente al tempo stesso. In quel tenue tocco, c’è il passato, il presente e un futuro che non teme l’incertezza.L’amore è tutto qui, in quella linea sottile tra la terra e il mare, nel riflesso di due anime che camminano insieme verso l’infinito, senza cercare altro se non il conforto della reciproca presenza. Un’immagine di semplicità e verità, un istante sospeso che racconta più di mille parole, che cattura l’essenza di ciò che significa essere uniti, senza pretese, senza necessità di altro se non di questo.Un passo, poi un altro, le onde si fanno più profonde, ma le mani restano unite. Non serve altro. In questo piccolo frammento di mondo, l’amore è completo, intero, perfetto nella sua imperfezione. Non ci sono promesse grandiose, solo la certezza di un cammino condiviso. E nel riflesso di quell’acqua, si vede tutto ciò che davvero importa: due vite intrecciate, un amore che resiste al tempo, come le onde che si infrangono ma sempre tornano, instancabili e fedeli, sulla stessa riva.E mentre il sole cala dolcemente, lasciando spazio alla quiete della sera, resta solo il suono lieve delle onde, il ricordo di due figure che si tengono per mano, camminando insieme nel mare della vita. Sì, l’amore è davvero tutto qui.

«Il Duomo e via Manzoni si vestono di grigio III» © Ornella Burchianti

Testo di Fabrizio Razzauti

Persone camminano per un’elegante strada cittadina, molte da sole, con testa china assorte nei loro pensieri, altre impegnate dai numerosi impegni quotidiani. Il selciato è bagnato e l’abbigliamento fa pensare all’autunno. Il bianco e nero accentua l’atmosfera di grigiore, la malinconia e l’incomunicabilità dei giorni nostri. Gli innamorati che si stringevano le mani in cerca di un posto solitario per farsi dolci promesse nella canzone “Autunno a Milano”, oggi si stringono vicini solo per farsi un selfie. 

Testo di Barbara Pierro

La Sinfonia delle Pietre e degli Anonimi
Nell’opera fotografica “Il Duomo e via Manzoni si vestono di grigio III” di Ornella Burchianti, ci troviamo di fronte a un dipinto senza colori, un ritratto senza tempo, un’invocazione visiva che attinge alla potenza dell’eterna contrapposizione tra il permanere e il fuggevole. In questo scatto in bianco e nero, la città stessa respira, si contrae e si espande in un’armonia fatta di luce e ombra, di movimento e staticità, come un cuore che pulsa nelle viscere di una Milano antica e moderna al contempo.
Il Duomo, colosso gotico che si staglia maestoso verso il cielo, non è solo un testimone di pietra, ma un cantore silenzioso delle storie di tutti coloro che hanno calcato questi selciati. Le sue guglie, appuntite come le dita di un veggente, sembrano indicare direzioni celesti, chiamando l’occhio a sollevare lo sguardo oltre il frastuono della quotidianità, oltre il caos dell’umano. In questo abito di grigio, il Duomo si fa custode delle nebbie del passato, delle preghiere senza nome e delle urla soffocate che echeggiano tra le sue navate e sotto il suo marmo candido che, privo di colori, diventa tela per ogni possibile immaginazione.Via Manzoni, strada che si allunga come una promessa non detta, appare in questo scatto come un fiume urbano che scorre senza tregua. È un percorso di anime in movimento, ognuna intrisa di un viaggio interiore, di un’esistenza singolare. I passanti sono ombre che attraversano il tempo e lo spazio, figure evanescenti che appaiono e scompaiono in un ritmo simile a quello delle maree. Essi sono il simbolo di un’umanità in perpetuo divenire, persa nei suoi pensieri, nei suoi cellulari, nei suoi incontri mancati e nelle sue mete sempre sfuggenti. Ma è nel contrasto tra l’immobilità imponente del Duomo e la fuggevolezza dei passanti che si manifesta la vera potenza dell’immagine. Il bianco e nero, scelto con sapienza, amplifica il senso di una città che non conosce stagioni, che si veste ogni giorno dello stesso manto di grigi e che sembra sospesa in un limbo tra l’eternità e l’istante. È come se il tempo stesso, nel momento in cui l’otturatore si chiude, venisse cristallizzato, trattenuto in un battito di ciglia che racchiude secoli. Burchianti, con la sua capacità di cogliere l’essenza delle cose non dette, ci invita a guardare oltre l’evidenza del paesaggio urbano. Non è solo la rappresentazione di un luogo, ma la cattura di un’essenza spirituale, di un’anima cittadina che parla attraverso il linguaggio delle ombre e dei riflessi. Le facciate dei palazzi, specchi opachi di sogni infranti e ambizioni mai realizzate, si ergono come scenografie di un teatro invisibile, dove i veri protagonisti sono i passi, i sospiri e le traiettorie di chi vi transita, sfuggendo all’oblio per un istante.Ogni dettaglio, ogni angolo, ogni sfumatura di grigio si fa portavoce di una bellezza sottile, non appariscente, una bellezza che risiede nella somma delle parti e nei vuoti tra di esse. C’è un che di mistico nella visione di questi spazi occupati e abbandonati nel medesimo momento, come se la fotografia stessa potesse aprire una finestra su un altro piano di realtà, uno spazio interiore dove ogni passer-by non è solo un individuo, ma un simbolo di un’esistenza più ampia, un richiamo all’umanità intera. La fotografia di Burchianti è, dunque, un’opera che va oltre la semplice rappresentazione visiva; è un poema in chiaroscuro, una preghiera senza parole rivolta al cielo e alla terra, un richiamo al sacro che alberga nel profano del quotidiano. Le guglie del Duomo e le ombre dei passanti si fondono in un’unica sinfonia, una musica silenziosa che risuona nel cuore di chi sa fermarsi a contemplare, di chi è disposto a vedere non solo con gli occhi, ma con l’anima.E così, in questo scatto, il Duomo e via Manzoni non sono più semplici luoghi; diventano archetipi di un viaggio ancestrale, simboli di un cammino che ci accomuna tutti, dal più umile pellegrino al più disincantato cittadino. Sono la testimonianza di un’umanità che, pur continuando a muoversi freneticamente, non può sfuggire alla quiete eterna della pietra, alla memoria imperitura di ciò che è stato e di ciò che, forse, sarà.

«Sei salita con rancore» © Massimiliano Cozza

Testo di Athos Rosini

Giovinezza, rappresentata da una giovane donna inquadrata dentro un mezzo di trasporto pubblico. Il riquadro del finestrino delimita lo spazio tra il fuori e il dentro protetto dalla trasparenza del vetro. La giovane è assorta nell’ascolto, si intravede l’auricolare, corre la fantasia; è una poesia cantata di Piero Ciampi “In un Palazzo di Giustizia” da cui è estrapolato l’incipit.

Testo di Barbara Pierro

Il Rancore del Viaggio: La Solitudine della Partenza
“Sei salita con rancore” — un rancore che si annida negli occhi velati di malinconia, un rancore che si arrotola attorno alle spire invisibili del tempo, come un serpente che stringe il suo ventre alla memoria. Sei salita su quel treno, e con te si è imbarcata una tempesta di pensieri avvolti nella nebbia di ricordi graffianti, nelle spine di un passato che non sa più essere addomesticato. Ti siedi, ma è un sedersi di chi non cerca conforto; è un sedersi di resa, come un generale stanco che ha perduto ogni battaglia, ma non la dignità di combattere fino all’ultimo respiro.Nel tuo riflesso sfocato sul vetro si scorge l’infinito del tuo viaggio interiore, un viaggio che non conosce stazioni né orari, ma solo deviazioni impercettibili verso un altrove che nessuna mappa può rivelare. Il mondo fuori scorre, si dissolve in un turbinio di immagini indistinte, ma tu resti immobile, ancorata a quella rabbia che si trasforma in una zavorra silenziosa, un peso che ti trascina sempre più a fondo. Ti sei raggomitolata, quasi a voler sparire nella stoffa del sedile, quasi a voler nascondere alla vista ciò che non può essere visto, se non dall’occhio attento del vuoto che ti scruta, paziente, senza giudizio.
Eppure, in questo tuo piegarti su te stessa, c’è un’eco di sfida, un’ombra di orgoglio che non si lascia spezzare. È un viaggio, sì, ma non un abbandono; è una fuga, ma non senza meta. È la ricerca di un nuovo capitolo, scritto con l’inchiostro dell’ira, con il sangue rappreso delle illusioni perdute. Il treno fende la notte, ma non è il buio che temi: temi il silenzio che segue, la quiete che accoglie la furia del cuore come un oceano accoglie un fiume in piena, lasciandolo disperdersi senza lasciare traccia.
Ogni scossa, ogni fremito del vagone è un rintocco, un battito di tempo che si dilata tra il presente e ciò che sarà. Sei in viaggio, ma non verso un luogo, bensì verso una condizione, una risoluzione che solo tu conosci. È un viaggio che è insieme condanna e liberazione, una promessa fatta a metà, un desiderio che si nasconde dietro un velo di rimpianto e di speranza spezzata. Sei salita con rancore, ma anche con un barlume di attesa, quella scintilla impercettibile che scintilla nelle ceneri del tuo sguardo, una fiamma minuta, fragile, ma innegabilmente viva.
E così, continui. Non c’è altro da fare se non continuare, lasciando che il treno corra e il rancore arda, fino a consumarsi in qualcosa di nuovo, di inspiegabilmente tuo. Forse è il viaggio stesso la tua risposta, un percorso che non ha bisogno di conclusioni, ma solo di proseguire, di esistere per il semplice atto di esistere. Forse è proprio nel rancore che troverai la tua redenzione, in quell’ardere silenzioso che illumina il tuo volto, anche solo per un istante, mentre il treno prosegue il suo corso nella notte senza fine.
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