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«Hanno distrutto le tue speranze» © Nelita Specchierla

Testo di Fabrizio Razzauti

Una donna con un’espressione triste e pensierosa, avvolta in un maglione spesso ripresa in un momento di profonda introspezione e malinconia, con capelli scompigliati che incorniciano il viso serioso. L’atmosfera generale è cupa, accentuata dalla scelta del bianco e nero, che enfatizza le ombre e i contrasti, conferendo all’immagine un senso di drammaticità e intensità emotiva. La composizione e l’uso della luce accentuano l’essenza della vulnerabilità umana con grande sensibilità e dignità.

Testo di Barbara Pierro

L’Oblio delle Speranze: Una Cronaca del Silenzio
“Hanno distrutto le tue speranze” — e in quell’affermazione, così assoluta, si apre un abisso che risuona come un gong che spezza il silenzio. Le parole cadono pesanti, come pietre scagliate in uno stagno immobile, creando cerchi che si allargano fino a dissolversi nei confini del non detto. È il lamento di un’umanità ferita, il grido soffocato di sogni che si sgretolano sotto il peso del disincanto, e il sussurro di promesse infrante che si perdono nelle pieghe di un tempo che non perdona.
Cosa resta, quando le speranze vengono distrutte? Resta il vuoto, certo, ma un vuoto che pulsa, che geme, che rifiuta di essere ignorato. È un vuoto abitato, un’assenza che brucia come una ferita aperta nel tessuto dell’anima. Sono le aspettative che si ripiegano su se stesse, come ali spezzate di un uccello che non vedrà mai il cielo. È la luce che si spegne in uno sguardo, il tremore di una mano che non trova più nulla da afferrare, il respiro trattenuto di chi ha già rinunciato a sperare.Eppure, in questa rovina c’è una dignità feroce, un’ostinata resistenza alla resa totale. È il canto funebre delle speranze, che non si lasciano dissolvere senza lottare, senza lasciare una scia di luce fioca in un angolo della coscienza. È la memoria del desiderio, che persiste come un’ombra lunga al tramonto, un’eco che si rifiuta di morire. È il fragile filo d’oro che tiene insieme i pezzi di un mosaico distrutto, un filo che non cede, che non si spezza del tutto, neppure sotto il peso del disincanto. La distruzione delle speranze è un atto violento, un urto sordo che lascia cicatrici invisibili, ma non sempre irreparabili. Perché anche nel più profondo dei crepacci può insinuarsi un germoglio di luce, un accenno di rinascita. È il paradosso dell’esistenza: che nella distruzione si cela sempre una possibilità di ricostruzione, che sotto le macerie dei sogni infranti può germogliare il seme di una nuova speranza, fragile, imperfetta, ma autentica.Così, mentre le tue speranze giacciono spezzate ai tuoi piedi, non è solo la fine che si svela, ma anche un inizio, sottile come un respiro, discreto come un battito di ciglia. È la vita che insiste, che si fa strada attraverso le crepe, che riprende a scorrere dove meno te lo aspetti. È un atto di sfida silenzioso, un’affermazione di esistenza che si oppone alla fine. E forse, in questo, c’è una forma di speranza che va oltre la speranza stessa, che trascende il suo destino, e persiste, ostinatamente, come una luce fioca in una notte senza stelle.

«Maestitia» © Patrizia Riviera

Testo di Fabrizio Razzauti

L’immagine mostra una figura umana maschile, leggermente sfocata, in un contesto che evoca un’atmosfera surreale e misteriosa. La sfocatura e i toni in bianco e nero contribuiscono a creare un senso di movimento e indefinitezza, rendendo l’immagine quasi un’opera pittorica. L’utilizzo della sfocatura e i contrasti forti creano un’atmosfera onirica e inquietante. La figura centrale e i contorni indistinti, fanno apparire il soggetto quasi come un’ombra evanescente in un ambiente enigmatico. I confini tra soggetto e ambiente diventano fluidi e indistinti, creando un senso di vulnerabilità e transitorietà. L’uso del bianco e nero e l’alta grana dell’immagine, rendono la figura in movimento attraverso un’altra dimensione, quasi come un’ombra che si dissolve nel tempo.

Testo di Barbara Pierro

Un uomo cammina, ma non cammina; fluttua come un pensiero intrappolato tra il sonno e la veglia, come un ricordo che si dissolve ancor prima di essere afferrato. È figura sfuggente, evanescente, un’increspatura nell’oscurità che non svela, ma cela. Il suo volto è un’eco di volti perduti, un riflesso sfocato di identità sfibrate, inghiottite dalla marcia inesorabile del tempo. La linea che separa il suo corpo dallo spazio è una soglia impalpabile, un confine che esiste solo per essere varcato, cancellato, come l’inchiostro nero che si diffonde su una pagina bianca, sottraendo luce al giorno, senso al visibile.In questo movimento smorzato, in questo incedere incerto, c’è tutto il peso di un’esistenza mai del tutto presente, sempre sul punto di dileguarsi in un altrove che non si conosce, che non si sa. La sua maestà è quella dei naufragi silenziosi, dei sogni abortiti all’alba, delle storie mai raccontate. È un monumento all’effimero, una statua scolpita nel buio, il cui contorno si perde in una danza di ombre e luci spezzate. Nulla è definito, nulla è concreto; tutto è in uno stato di perpetua fluttuazione, un dialogo muto tra il visibile e l’invisibile, tra il presente e l’assenza.L’uomo, o ciò che resta di lui, è un enigma in movimento, una risposta inespressa ad una domanda mai posta. È l’antitesi dell’eroe, la negazione della forma, un corpo che esiste solo nell’atto del passaggio, nella sfumatura impercettibile tra un prima e un dopo che non troveranno mai un appiglio nel reale. Ogni passo è una caduta, ogni caduta un nuovo inizio, un ciclo eterno che non promette nulla se non il perpetuarsi della stessa fuga, dello stesso smarrimento.E così, nell’oscurità che lo avvolge, si compie il rito della sparizione, della resa all’indefinito. Ma in quella stessa sfocatura, in quella dissolvenza graduale, c’è una strana, inesplicabile bellezza. È la maestitia del disfacimento, la gloria di ciò che non sarà mai interamente posseduto. È l’uomo che cammina, senza lasciare traccia, senza voltarsi indietro, sospeso tra la memoria e l’oblio, in una notte che non conosce alba, ma solo la promessa di un altro passo, un altro respiro, un altro momento che sfugge, sempre un attimo prima di diventare eterno.

«Io sono un condannato a morte come Te» © Simona Viscioni

Testo di Vanni Pandolfi

All’interno di uno scenario metafisico una Donna sorregge e trasporta un Uomo stanco, senza forze, impossibilitato nel continuare il suo cammino, sul faticoso percorso della Vita. E’ il nostro destino, quello di essere condannati a morte, ma l’amore è sostegno, prendersi cura dell’altro, unione di forze e protezione, camminando insieme nella luce. E l’ombra sottostante le due figure testimonia la fusione in un unico essere, una nuova entità olistica che supera generi e differenze capace senza alcun dubbio di affrontare quel destino in maniera più tranquilla e sicura. 

«Mentre la nebbia scende» © Francesco Luongo

Testo di Fabrizio Razzauti

Una figura solitaria sulla grande scacchiera della Terrazza Mascagni accentua la sensazione di isolamento e vastità. La nebbia densa che avvolge tutta la scena aggiunge un ulteriore strato di mistero e malinconia. A destra, si erge una mastodontica struttura metallica formata da una ripida scala e un tortuoso scivolo. Come abbandonata a se stessa, fuori dal tempo, eterea, aumenta il senso di mistero e di incertezza della situazione.  L’immagine è suggestiva, invita a riflettere sul senso della vita, sulla solitudine, sul mistero che circonda l’uomo e il suo posto nel mondo.

«Mi resta la tua ombra» © Carlo Lucarelli

Testo di Fabrizio Razzauti

Una finestra semi-aperta, un cavo che scende disordinato in basso, lungo il muro del palazzo formando un’ombra sinuosa e creando l’illusione di un volto quasi a rappresentare la presenza di una persona amata che non c’è più. Diventa un’ossessione costante quella di chi guarda e vede chi ha nel cuore in ogni momento e in ogni luogo. Sarcastica l’idea che le due persone siano ancora connesse attraverso la fragilità di un cavo di un’antenna TV, ironica anche l’idea che i tratti dell’ombra possano cambiare al prossimo colpo di vento.

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