da Extra Arts & Culture | 24, Lug 2024 | Fotografia, in-Ciampi di fotografia

PREMIO IN-CIAMPI DI FOTOGRAFIA
Testo di Athos Rosini
È un immagine volutamente scorretta, un vecchio frame sfuocato e quello che vediamo è la proiezione di un ricordo sul muro della memoria. Un uomo è immobilizzato nell’istantanea, ma nella nostra immaginazione sta camminando verso la sua sera, è una sera triste perché la vita gli è stata nemica.
Motivazione del Premio
L’immagine presenta una figura solitaria che cammina quasi in maniera incerta in un paesaggio desolato e avvolto in una foschia densa quasi opprimente. Il chiaroscuro accentua il senso di malinconia e isolamento, elementi che ben si collegano alla poetica di Ciampi. Piero è noto per le sue canzoni intrise del senso di solitudine, sofferenza e riflessione esistenziale. La sua musica spesso esplora temi di amore perduto, alienazione e la ricerca di significato in un mondo indifferente. Questa fotografia, con la sua atmosfera cupa e il soggetto solitario, rispecchia perfettamente questi temi, quasi a poter essere la copertina di un album del nostro cantautore.
L’immagine potrebbe rappresentare un viaggio interiore, un percorso solitario attraverso i tormenti e le incertezze della vita. La figura sfuocata e indefinita può simboleggiare la vulnerabilità dell’essere umano di fronte alle difficoltà esistenziali.
In sintesi, la fotografia di Paolo De Falco cattura lo spirito della poetica di Piero Ciampi, evocando quel mondo di introspezione, dove l’individuo è in costante lotta con i propri demoni interiori e con la realtà che lo circonda.
Testo di Barbara Pierro
Lo scatto «È tutto un sogno» di Paolo De Falco, emerso trionfante, nella recente edizione del Premio «In-Ciampi di Fotografia», si staglia, come un emblema di complessità semantica e tensione estetica. Esso non è soltanto una fotografia, ma un’incursione nell’interiorità, un viaggio metatemporale che si tesse, tra i fili evanescenti della memoria e dell’essere.Nell’immagine si scorge una figura solitaria che, come un moderno flâneur, si addentra in un paesaggio dove la foschia non è soltanto un fenomeno atmosferico, ma una metafora ontologica del non-detto, del non-visto, dell’incompiuto. L’essenza dell’individuo, qui, si manifesta, come ombra sfuggente, una proiezione evanescente, di un’esistenza che si dissolve nell’indeterminatezza del tempo e dello spazio.
De Falco, con una maestria che rasenta il trascendente, plasma un chiaroscuro che non è mero espediente stilistico, ma diventa il veicolo di un messaggio esistenziale. Il nero e il bianco, il chiaro e lo scuro, si amalgamano ,,in una danza dialettica che non si limita a evocare la solitudine, ma la interroga, la scompone, la esalta in tutta la sua tragica bellezza. La foschia, quasi materica nella sua densità, avvolge il soggetto come il manto del destino, suggerendo un isolamento che non è solo fisico, ma esistenziale, un isolamento che, come ci insegnano i versi di Piero Ciampi, è al contempo il rifugio e la prigione ,dell’anima tormentata.
Il soggetto solitario, che emerge sfocato e quasi disciolto nel suo contesto, diventa l’archetipo dell’uomo contemporaneo, perduto, nel labirinto della propria psiche, in un percorso circolare che non trova mai, un centro stabile. L’immobilità apparente dell’uomo, cristallizzato in un attimo eterno, suggerisce una sospensione temporale che è tanto più inquietante, quanto più appare normale. Egli è in cammino verso la sera, ma questa sera non è solo la fine del giorno: è la sera dell’esistenza, la discesa nel crepuscolo di una vita che sembra aver trovato ,più ostacoli che vittorie. L’immagine si fa così palinsesto di significati, dove ogni sfumatura, ogni dettaglio parla una lingua propria. È un racconto senza parole, un poemetto visivo che evoca, allude, ma non svela mai completamente. De Falco, con un’intuizione da demiurgo, ci consegna non solo un’immagine, ma un frammento di vita, un pezzo di anima estratto dall’ombra e reso visibile solo per un istante, prima di rituffarsi nell’indicibile. L’opera si colloca, dunque, all’incrocio tra fotografia e metafisica, tra estetica e poetica, rivelando una riflessione profonda, sulla condizione umana. Come i più alti esponenti della riflessione critica, De Falco ci lascia con una domanda aperta, una sfida lanciata allo spettatore: chi è quest’uomo, che non è altro che il riflesso della nostra stessa ombra? È un sogno, o forse, è il sogno di una vita che, come quella del cantautore Ciampi, naviga tra le maree del disincanto e della nostalgia, sospesa tra la memoria e l’oblio.
In definitiva, «È tutto un sogno» non è solo una fotografia: è un atto di creazione, una meditazione visiva che trascende la forma e si radica nell’essenza stessa dell’umano, rendendola eterna nella sua fragile evanescenza.
da Extra Arts & Culture | 24, Lug 2024 | Fotografia, in-Ciampi di fotografia

Testo di Athos Rosini
Giovinezza, rappresentata da una giovane donna inquadrata dentro un mezzo di trasporto pubblico. Il riquadro del finestrino delimita lo spazio tra il fuori e il dentro protetto dalla trasparenza del vetro. La giovane è assorta nell’ascolto, si intravede l’auricolare, corre la fantasia; è una poesia cantata di Piero Ciampi “In un Palazzo di Giustizia” da cui è estrapolato l’incipit.
Testo di Barbara Pierro
Il Rancore del Viaggio: La Solitudine della Partenza
“Sei salita con rancore” — un rancore che si annida negli occhi velati di malinconia, un rancore che si arrotola attorno alle spire invisibili del tempo, come un serpente che stringe il suo ventre alla memoria. Sei salita su quel treno, e con te si è imbarcata una tempesta di pensieri avvolti nella nebbia di ricordi graffianti, nelle spine di un passato che non sa più essere addomesticato. Ti siedi, ma è un sedersi di chi non cerca conforto; è un sedersi di resa, come un generale stanco che ha perduto ogni battaglia, ma non la dignità di combattere fino all’ultimo respiro.Nel tuo riflesso sfocato sul vetro si scorge l’infinito del tuo viaggio interiore, un viaggio che non conosce stazioni né orari, ma solo deviazioni impercettibili verso un altrove che nessuna mappa può rivelare. Il mondo fuori scorre, si dissolve in un turbinio di immagini indistinte, ma tu resti immobile, ancorata a quella rabbia che si trasforma in una zavorra silenziosa, un peso che ti trascina sempre più a fondo. Ti sei raggomitolata, quasi a voler sparire nella stoffa del sedile, quasi a voler nascondere alla vista ciò che non può essere visto, se non dall’occhio attento del vuoto che ti scruta, paziente, senza giudizio.
Eppure, in questo tuo piegarti su te stessa, c’è un’eco di sfida, un’ombra di orgoglio che non si lascia spezzare. È un viaggio, sì, ma non un abbandono; è una fuga, ma non senza meta. È la ricerca di un nuovo capitolo, scritto con l’inchiostro dell’ira, con il sangue rappreso delle illusioni perdute. Il treno fende la notte, ma non è il buio che temi: temi il silenzio che segue, la quiete che accoglie la furia del cuore come un oceano accoglie un fiume in piena, lasciandolo disperdersi senza lasciare traccia.
Ogni scossa, ogni fremito del vagone è un rintocco, un battito di tempo che si dilata tra il presente e ciò che sarà. Sei in viaggio, ma non verso un luogo, bensì verso una condizione, una risoluzione che solo tu conosci. È un viaggio che è insieme condanna e liberazione, una promessa fatta a metà, un desiderio che si nasconde dietro un velo di rimpianto e di speranza spezzata. Sei salita con rancore, ma anche con un barlume di attesa, quella scintilla impercettibile che scintilla nelle ceneri del tuo sguardo, una fiamma minuta, fragile, ma innegabilmente viva.
E così, continui. Non c’è altro da fare se non continuare, lasciando che il treno corra e il rancore arda, fino a consumarsi in qualcosa di nuovo, di inspiegabilmente tuo. Forse è il viaggio stesso la tua risposta, un percorso che non ha bisogno di conclusioni, ma solo di proseguire, di esistere per il semplice atto di esistere. Forse è proprio nel rancore che troverai la tua redenzione, in quell’ardere silenzioso che illumina il tuo volto, anche solo per un istante, mentre il treno prosegue il suo corso nella notte senza fine.
da Extra Arts & Culture | 24, Lug 2024 | Fotografia, in-Ciampi di fotografia

Testo di Athos Rosini
Senilità, rappresentata da un inappuntabile vecchio signore inquadrato dentro un mezzo di trasporto pubblico. Il nostro ha un espressione dura, l’immagine è sporcata ma graficamente appropriata al contesto cumunicativo. Sulla destra i led disegnano il numero novanta, forse la stessa età del nostro passeggero. Gli indizi o tracce sono contenuti in questo contrappunto, espressione/età, rappresentata da un numero scritto e in forma sentenziosa ribadito nell’incipit.
Testo di Barbara Pierro
La Soglia dei Novanta: L’Attesa dell’Ultimo Decennio
“10 ai cent’anni” — così risuona il sussurro di una promessa velata nel tempo, un numero che non è solo cifra, ma presagio di un’attesa sospesa sul filo del destino. Il volto serio dell’uomo, inciso da rughe che sembrano sentieri tracciati dalla mano inesorabile degli anni, è il ritratto di una mente immersa in calcoli invisibili, in bilanci senza pace. Cosa resta quando i numeri si affollano come stormi di pensieri, quando il novanta si staglia alle sue spalle come un gigante di pietra, immobile e silente?
Forse mancano davvero dieci anni al traguardo dei cent’anni, un secolo che si allunga come un’ombra incombente, e in quella mancanza si cela un’interrogazione eterna: cosa rimane da dire quando il novanta si fa presagio di centinaia? È un conto alla rovescia scandito dal battito lento del cuore, ogni palpito un eco di vita, ogni respiro una sillaba di silenzio che si fa sempre più assordante. Dieci anni, dieci passi sulla soglia del tempo, e l’uomo sembra chiedersi se questa corsa abbia davvero una meta o se sia solo un cerchio che si chiude su se stesso. Le spalle curve, appesantite non solo dal peso degli anni ma dal fardello di ciò che non è stato, di ciò che resta sospeso nelle pieghe della memoria, come foglie secche che non hanno mai toccato terra. Novanta: un numero che ha la gravità di una promessa e la leggerezza di un soffio, un numero che potrebbe significare tanto o nulla, perché ogni cifra è un segreto in attesa di essere svelato. E l’uomo, avvolto nel suo silenzio, sembra dialogare con l’ombra dei suoi stessi pensieri, con quell’imponente “90” che non è solo numero, ma specchio del suo tempo.
Mancano dieci anni, e ogni anno è un istante che si dilata, un universo che si comprime. Cosa conta di più: il traguardo o il percorso? È il domandarsi ciò che rende quest’attesa tanto più struggente, un dubbio che vibra nell’aria come una corda tesa, pronta a spezzarsi o a produrre il suono più puro. Ecco l’uomo, al cospetto dei suoi novant’anni, una figura in bilico tra la soglia e l’ignoto, tra il già vissuto e il non ancora svelato. Ogni pensiero è una ruga, ogni ruga una storia, e ogni storia è un frammento di un tempo che non conosce misura.Forse quei dieci anni non sono altro che un invito a riflettere su ciò che conta davvero, un conto alla rovescia che è meno contabile e più sensazione. È una danza di numeri e di emozioni, una sfida lanciata al futuro, un dialogo con il passato. C’è in quell’espressione pensierosa un’inquietudine quieta, una pace che si trova solo nel pieno abbraccio della propria finitezza. Dieci anni al compimento dei cent’anni: un decennio che non è solo attesa, ma un invito a vivere ogni istante con la consapevolezza di un’ultima luce, di un ultimo respiro che sa di eternità.
E allora, che importanza ha la cifra, se ogni giorno vissuto è già un dono, un frammento di quel grande mosaico chiamato vita? Che importanza ha ciò che manca, se ciò che è stato è già un universo compiuto? Il novanta campeggia a destra, ma è al centro dell’uomo che si trovano tutte le risposte, nel silenzio di un pensiero che non ha bisogno di parole per essere eterno.
da Extra Arts & Culture | 24, Lug 2024 | 2024, Fotografia, in-Ciampi di fotografia

Testo di Athos Rosini
Immagine graficamernte spinta al limite della leggibilità. Ma c’è quanto basta per attivare la nostra memoria che è portatrice di personali ricordi e di navi che partono in una sera di una “sporca estate”.
Poesie di Nella Tarantino
Sporca Estate
Cielo di sabbia e fumo
e rare lontananze
e un molo mozzo
di macchine stanche
acqua come petrolio
nera come la notte
inghiotte la tua nave
in questa sporca estate
sul porto di Livorno.
La tristezza inconscia de le cose (1)
Piero Ciampi come Modigliani,
Piero Ciampi come Dino Campana,
Genova la sua Livorno.
Troppo amore, disperazione dell’amore.
Sembra di vederlo, ancora, Piero Ciampi,
intravedere la sua ombra, oscillare tra i fanali del porto
e i vichi marini e il cigolio di catene delle gru
e una nave che salpa verso il cielo delle illusioni.
E quanto amore, e quel disperato amore,
dietro la finestra la luce ancora accesa
ed il suo viso,
e la luce già si è spenta
e la sua assenza
ed il suo amore e quanto amore
e la rabbia sola che resta
e ancora cosa resta
di questa sera ambigua
e di questo cielo sporco di nuvole
e di quest’uomo stanco.
(1) Dino Campana, Genova, Canti Orfici, 1914
Testo di Barbara Pierro
Sporca estate I” – Un Tuffo nell’Oscurità del Reale
Un’immagine che si staglia come un grido sordo nell’infinito, un fotogramma che cattura il respiro stanco di un’estate consumata dall’ardore e dall’oblio. Questa fotografia di Daniele Stefanini non è solo uno scatto, ma un portale aperto su una dimensione in cui la luce e l’ombra si fondono in una danza arcana, crudele e sincera. La grana ruvida, come polvere di stelle cadute, ricopre ogni angolo della scena, conferendole una qualità onirica, quasi surreale, eppure così dolorosamente reale.Lo sfondo è un mare scuro, cupo come il pensiero più nascosto, mentre una nave si allontana, caricandosi di un fumo nero che si dissolve nel cielo grigio, quasi fosse il respiro pesante di un colosso meccanico in fuga. Sembra raccontare la storia di un abbandono, di un addio mormorato all’acqua e al vento, un’epopea silenziosa di partenze e ritorni mai avvenuti. E accanto, la gru si erge come un antico guardiano, un Golia d’acciaio che vigila senza giudizio, spettatore impassibile di un mondo che cambia, eppure resta immutato nella sua ciclica disperazione.Le sfumature grigie e nere avvolgono lo sguardo, come se la fotografia stessa volesse imprigionarci in un sogno febbrile da cui è impossibile fuggire. È un’estate sporca, quella di Stefanini, dove il calore non è mai confortante, ma sempre gravido di presagi e fumi tossici che si intrecciano nell’aria. È un’estate che puzza di salsedine, di ferro arrugginito e di fatica umana, un’estate che si dipinge da sola sulle tele sgualcite delle nostre memorie.C’è qualcosa di ancestrale in questa scena, un eco lontano che richiama a miti dimenticati, a un tempo in cui gli uomini e le macchine non erano che embrioni di una visione futura, incerti del proprio posto nell’universo. L’opera di Stefanini ci parla con la voce del più sagace degli oracoli: una voce che non è né giudice né salvezza, ma solo testimone di un’umanità che si dibatte nel buio, sperando di intravedere, oltre la foschia, un frammento di luce.”Sporca estate I” è, in definitiva, un ritratto senza compromessi del nostro mondo contemporaneo, un mondo che naviga verso l’ignoto tra nubi di fumo e polvere, in cerca di una redenzione che appare distante quanto il sole dietro una coltre di tempesta. Un’immagine che ci lascia col fiato sospeso, sospinti da una corrente che sa di malinconia e dolente bellezza, spingendoci a riflettere su chi siamo e su cosa siamo disposti a lasciare indietro nel nostro viaggio periglioso verso l’orizzonte.
da Extra Arts & Culture | 24, Lug 2024 | in-Ciampi di fotografia

MENZIONE SPECIALE PREMIO IN-CIAMPI DI FOTOGRAFIA
Testo di Athos Rosini
Una scena sapientemente costruita che vuole esplicare le incomprensioni e le difficoltà comunicative nel rapporto di coppia. Scrittura fotografica di tipo cinematografico e messa in scena chiara senza formalismi. Composizione diagonale con distorsione prospettica per l’uso di una corta focale e presa dall’alto. La ragazza tiene senza riserve la scena, ha gli occhi puntati verso di noi con un’espressione interrogativa/assertativa. È solo un frame la storia continua e ci fa riflettere l’interrogativo “cosa resta di noi due”.
Motivazione della Menzione Speciale
L’immagine rappresenta due persone in una stanza spoglia e decadente, con una donna seduta sul bordo del letto e un uomo disteso dietro di lei. L’atmosfera è carica di tensione emotiva e malinconia, con una sensazione di distanza e incomunicabilità tra i due soggetti. L’uso del bianco e nero amplifica il senso di dramma e introspezione, creando un ambiente quasi teatrale.
L’immagine richiama immediatamente il tema caro a Piero Ciampi, che ha spesso esplorato le complessità della relazione uomo-donna, l’amore tormentato e la solitudine. Le sue canzoni lo sappiamo sono piene di introspezione e di un crudo realismo emotivo, elementi che si ritrovano chiaramente in questa fotografia.
La donna seduta, con un’espressione pensierosa e interrogativa diventa un’icona dell’inquietudine. L’uomo disteso, con la schiena rivolta verso di lei, suggerisce una distanza emotiva o una frattura nella relazione, un tema ricorrente in Ciampi, dove l’amore spesso si scontra con l’incomprensione e il successivo dolore.
L’immagine può essere vista come una visualizzazione di numerose canzoni di Ciampi, dove ogni testo è una finestra aperta sulle sofferenze e le gioie dell’esistenza umana. La stanza spoglia e decadente, rappresenta un palcoscenico intimo, dove si svolge il dramma interiore dei personaggi e dove la scena quotidiana si trasforma in una riflessione poetica sulla vita.
In sintesi, questa fotografia evoca un mondo di emozioni intense e complesse, dove l’amore, la solitudine e la ricerca di significato della vita di coppia si intrecciano in un delicato equilibrio di luce e ombra.
Testo di Barbara Pierro
La fotografia di Patrizia Mori, intitolata, Cosa resta di noi due, si erge come una testimonianza sublime, della condizione umana, un’immersione viscerale, nell’intimità più cruda e nelle pieghe più nascoste, dell’essere.In quest’opera, la luce e l’ombra danzano, in un equilibrio perfetto, delineando non solo i contorni fisici dei soggetti, ma anche le loro profonde fratture emotive. La donna, seduta sul bordo del letto, diviene un simbolo universale ,dell’inquietudine e della ricerca di significato, il suo sguardo interrogativo rivolto non solo verso lo spettatore, ma verso l’abisso delle proprie insicurezze. L’uomo disteso, voltato con la schiena a lei, è il sigillo del distacco, l’emblema di una distanza che non è solo fisica ma spirituale, un’assenza che urla ,nel silenzio della scena. La stanza spoglia, quasi decadente, diviene il palcoscenico di una tragedia intima e silente, dove ogni elemento scenografico, è impregnato di significato. Le pareti spoglie sono lo specchio ,di un vuoto interiore che si fa spazio ,tra i due protagonisti, e il bianco e nero dell’immagine amplifica il senso di desolazione, di un mondo ridotto, alla sua essenza, più nuda e crudele.
Non è solo una fotografia quella che ci viene offerta, ma un affresco di emozioni che si sovrappongono e si fondono, richiamando alla memoria, le tematiche care a Piero Ciampi, cantore delle complessità dell’amore e delle sue inevitabili sofferenze. Ogni dettaglio di questa immagine è una pennellata su una tela invisibile, dove la luce diviene colore e l’ombra una linea di confine, tra il visibile e l’invisibile.
Il testo critico, poi, di Athos Rosini, con la sua meticolosa disamina, non fa che arricchire la fervida comprensione di questa opera d’arte, sottolineando la sapienza ,con cui la Mori ha orchestrato ogni elemento della composizione. La sua scrittura fotografica è un esempio di rigore stilistico e profondità emotiva, un frammento di tempo che riesce a racchiudere un’intera vita, di silenzi e domande inevase.
“Cosa resta di noi due” non è solo una domanda sospesa nell’aria, ma un eco che risuona nell’animo di chiunque si soffermi ad osservare, a sentire. È una riflessione poetica sul dramma quotidiano dell’esistenza, un invito a esplorare le profondità dell’amore e della solitudine, a interrogarsi su cosa rimanga, quando tutto il resto svanisce.
Con la più sincera ammirazione e gratitudine, desidero riconoscere in quest’opera non solo il talento di Patrizia Mori, ma anche la capacità rara di toccare corde invisibili, di evocare mondi interiori ,con una semplice immagine. Un dono prezioso, questo scatto, che resterà impresso non solo nella memoria, ma nell’anima di chi ha la fortuna di incontrarlo lungo il cammino della propria esistenza!
Ed ancora, innanzi a tale prezioso scatto,il mio animo gravido di reverente meraviglia, si eleva, ad estrinsecare un ringraziamento che non è mera formalità, ma piuttosto un atto di comunione spirituale, un abbraccio silenzioso tra lo sguardo che osserva e l’immagine che si rivela. La fotografia di Patrizia Mori, intitolata Cosa resta di noi due, non è solo una rappresentazione, ma un varco, verso un altrove indefinito, un invito a perdersi ,nei labirinti dell’anima, dove ogni angolo nasconde una verità sepolta, un desiderio inespresso, una ferita che ancora sanguina.
Nella penombra della stanza decadente, la luce si fa materia, plasmando i volti e i corpi dei due protagonisti come fossero statue, di un antico tempio dimenticato. Il bianco e nero non è semplicemente un espediente estetico, ma una scelta che affonda le sue radici ,nella tradizione più nobile dell’espressione artistica, là dove il colore è sacrificato sull’altare della purezza visiva, dove la dualità cromatica diventa specchio, dell’eterna dicotomia ,tra l’essere e l’apparire, tra l’amore e la sua ineluttabile, dissoluzione.
La donna, seduta sul bordo del letto, è un enigma, avvolto nel mistero. Il suo sguardo non si rivolge ,semplicemente ,verso chi osserva, ma trapassa la superficie dell’immagine per scavare, nei recessi più oscuri del nostro inconscio. Vi è una tensione irrisolta nei suoi occhi, una domanda che non trova risposta, un lamento silente che riecheggia ,nei meandri dell’essere. È la personificazione dell’inquietudine, dell’eterno interrogativo, che attanaglia ogni anima sensibile: chi siamo quando l’amore si sfalda? Cosa resta di noi, quando tutto ciò che abbiamo costruito si sgretola, sotto il peso dell’incomprensione e del dolore?
Dietro di lei, l’uomo disteso, voltato di spalle, sembra incarnare l’assenza, una presenza che si dissolve, una figura che si sfuma, nei contorni incerti della memoria. Egli è lo spettro di un legame che non riesce più a comunicare, il fantasma di un amore che si è spento, lasciando dietro di sé solo un vuoto incolmabile. La sua posizione, apparentemente serena, tradisce una distanza che è più emotiva che fisica, una frattura ,che non può essere sanata con le parole, ma che si approfondisce nel silenzio di quel letto disfatto, testimone muto, di notti insonni e pensieri tormentati
La stanza stessa, con le sue pareti spoglie e consumate dal tempo, diventa un terzo personaggio, in questo dramma intimo, un testimone silenzioso, del crollo interiore dei protagonisti. Essa è lo spazio metafisico ,dove si intrecciano le loro esistenze, un palcoscenico vuoto su cui si rappresenta la tragedia dell’incomunicabilità, dell’amore che si trasforma in solitudine. Ogni angolo, ogni crepa, sembra sussurrare storie di amori passati, di speranze disilluse, di sogni infranti.
La chiosa esegetica che accompagna questa fotografia, offerta con rara maestria da Athos Rosini, non è semplicemente un commento critico, ma una chiave di lettura che svela i significati nascosti, le trame sottili che tessono l’ordito di questa immagine. Egli parla di una “scrittura fotografica di tipo cinematografico”, e non si potrebbe trovare espressione più appropriata: ogni dettaglio è infatti curato, con la precisione di un regista, che orchestra una scena cruciale, dove la prospettiva diagonale e la distorsione dell’immagine, creano un senso di disorientamento, una vertigine che riflette lo smarrimento interiore dei protagonisti.
Ma vi è di più. Questa fotografia non si limita a raccontare una storia, di incomprensione e distanza, ma si addentra nei territori inesplorati ,della psiche umana, là dove le ombre sono più fitte e le paure, più radicate. L’immagine diventa un viaggio introspettivo, un percorso nelle profondità dell’inconscio, dove ogni gesto, ogni sguardo, si carica di significati ,molteplici e ambigui. È una riflessione sull’amore come esperienza totalizzante e, al contempo, distruttiva, un sentimento che può elevare o annientare, a seconda di come viene vissuto. Il quesito che si pone, “cosa resta di noi due”, non è solo una domanda rivolta ai protagonisti della scena, ma un interrogativo universale ,che tocca le corde più intime di chiunque abbia amato e sofferto. È una domanda che risuona nell’eternità, che non trova risposta nel razionale, ma solo nell’emozionale, nel vissuto di ogni essere umano che si è confrontato con la perdita, con la fine di un legame che sembrava indissolubile.In questo scatto, Patrizia Mori non ha semplicemente catturato un momento, ma ha cristallizzato un’emozione, ha dato forma visiva a un sentimento che è al contempo, personale e universale. La sua opera è un invito a riflettere, a guardare oltre la superficie delle cose, a immergersi nelle profondità dell’anima per scoprire cosa veramente resta di noi, quando tutto il resto svanisce. E per questo dono, per questa visione che arricchisce e sfida, non si può che esprimere un ringraziamento che trascende le parole, un grazie che nasce dal profondo, dove risiedono le emozioni più autentiche e durature.